venerdì 2 novembre 2012

4 novembre


Luigi Cadorna

Una volta si stava pure a casa da scuola, per il 4 novembre.
Oggi non più, e bisogna andare in giro per i corridoi degli istituti, per trovare, su una bacheca defilata, il manifesto bianco, a caratteri neri, con il tricolore in piccolo, in un angolo, che ricorda, a chi ha la pazienza di leggere, cosa si commemora il 4 novembre.
Una volta era la vittoria, oggi si parla di forze armate e unità nazionale.
In ogni caso, ci si confronta con concetti un po' scivolosi. Perchè se si parla di forze armate in fin dei conti, lo dice il nome stesso, si parla di armi, se si parla di unità nazionale il rischio è di cadere nel nazionalismo, se si parla di vittoria il rischio è di cadere nell'elogio della guerra.
Già, la guerra. La Grande Guerra, con le G maiuscole. Non mi definirei certo un esperto del primo conflitto mondiale, ma per scrivere "Sul Grappa dopo la vittoria" ho dovuto leggere e studiare. Certamente la Grande Guerra affascina.
E', forse prima di tutto, per la dimensione quasi mitica che avvolge le imprese di quei soldati, sospesi e quasi incerti tra un mondo di duelli all'arma bianca, di assalti, di colpi di mano in cui è la forza e il coraggio del singolo a far la differenza, e una modernità alienante, nella quale la morte si fa seriale e gratuita, nella quale conta solo la quantità di cannoni e di granate a disposizione, e non il valore dell'esercito.
Non posso fare a meno di immaginare la profondità e la totalità dello shock culturale che investì i soldati, tolti da un orizzonte di vita agricolo e preindustriale e sbattuti in un mondo di macchine di morte, di gas asfissianti, di mitragliatrici, di cibi in scatola...
Per non parlare dello shock ambientale... ricordo sempre la lettera di un giovane soldato ungherese, impegnato nella guerra sugli altipiani, lettami da un amico ben più appassionato di me sulle cose della Grande Guerra, nella quale il ragazzo, sempre vissuto nella sconfinata pianura, racconta stupito ai genitori di aver scoperto delle cose strane, che si chiamano "pietre"!

Al di là della conoscenza e dello studio su quel complesso fatto storico che chiamiamo Prima Guerra mondiale, credo che, specie in occasione del 4 novembre, resti da chiarire quale sia il ruolo, oggi, da assegnare alla memoria.
Per certi momenti della nostra storia recente, e penso ad esempio al fenomeno della Resistenza e della guerra di liberazione, credo che sia ancora difficile pensare di poter avere uno sguardo lucido. Ci sono ferite ancora sanguinanti, memorie e interpretazioni discordi, e pertanto la memoria diventa spesso un fatto doloroso, anchrchè doveroso.
Ma forse per la Grande Guerra è giunto il momento di far largo, con serenità, a una reinterpretazione che scrosti la memoria collettiva dai residui (ancora presenti!) della retorica dell'eroismo, del sacrificio, della bella morte, e riconsegni al nostro paese una prospettiva di Grande Guerra come inutile strage, come incomprensibile assurdo sacrificio di centinaia di migliaia di vite umane su un altare posticcio e ingrato.
Un primo passo concreto per far ciò potrebbe essere, a mio avviso, quello suggerito dal giornalista e scrittore Ferdinando Camon, di eliminare il nome di alcuni generali, in primis Cadorna, e ci aggiungerei anche Giardino, dalle intitolazioni di piazze, viali e strade nelle nostre città, sostituendoli con nomi che sottolineino altri aspetti e altri protagonisti del conflitto, quali "Unità d'Italia", o "III Armata", o "Ragazzi del '99".
La città di Udine, giusto per fare un esempio, già il 3 agosto del 2011 ha fatto una scelta del genere.
In questo modo in primo luogo si costringerebbe la collettività a un ripensamento, a un "fare memoria" nuovo, favorendo discussioni, confronti e dialettiche utili alla verità storica.
In secondo luogo nelle nostre città verrebbe meno l'elogio, scomodo sebbene implicito, a persone che, senza troppi perchè, mandarono a morire in maniera spesso ottusa e talvolta apertamente crudele decine di migliaia di soldati, in un conflitto cercato e voluto da una minoranza del paese, e che forse poteva essere tranquillamente evitato percorrendo la strada della diplomazia.
Può essere solo una provocazione, e di certo cambiare il nome a una piazza non serve a niente, se nelle scuole non si parla della grande guerra in modo più approfondito, più vicino al territorio, meno legato alla semplice esigenza di liquidare il capitolo in fretta, perchè l'esame di maturità si avvicina e bisogna svolgere il programma almeno fino alla Guerra Fredda...
Ma, piuttosto del silenzio, anche una provocazione ha la sua utilità.


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giovedì 1 novembre 2012

22 novembre a Rosà

Giovedì 22 novembre presso la Biblioteca comunale di Rosà presenterò il "Sillabario veneto", con la partecipazione graditissima del cantautore Leo Miglioranza.

A presto!

2 novembre


Lasciamo stare Halloween.
Tolte le maschere di questo piovoso pseudocarnevale, tolti i petardi nelle buche delle lettere, tolti gli anglofili "dolcetto o scherzetto" che riecheggiano per le vie, ricordandoci quanto siamo succubi di altre culture e altri valori, l'inizio di novembre è affascinante.
Ho sempre ammirato la perfezione, frutto di secoli di osservazioni ed equilibri, dell'anno cristiano. Le distanze tra le festività, le rispondenze implicite tra di esse, l'equilibrio tra stagioni e riti, tra clima e sacralità.
Frutto certo anche di contaminazioni con le preesistenti religioni del pagus, ma non solo.
Mi piace questo commemorare i defunti all'inizio dell'autunno, quando la natura si addormenta in una morte apparente, quando le giornate sfioriscono assieme alle foglie degli alberi, e il sole si fa come più lontano, più indifferente. E' un momento adatto, questo, per ragionare di morte.
Non serve aver letto "I Sepolcri" di Ugo Foscolo per capire che siamo figli (e Halloween tutto sommato ne è la riprova) di una visione recenziore, gotica e nordica, della morte come elemento terrorifico: la vecchia signora con la falce, il cimitero diroccato, tutto croci di pietra inclinate e coperte di muschio, e cancelli cigolanti.
C'è chi sostiene, e se non erro Foscolo è tra questi, che tale visione negativa della morte sia stata instillata nella nostra cultura dalla religione cristiana che, facendo coincidere il trapasso con il giudizio, ha avvolto in un mistero pauroso questo momento inevitabile dell'esistenza.
Certo, non doveva essere male vedere, nei tempi di Roma antica, le famiglie libare, in una sorta di picnic cimiteriale, sui sepolcri degli avi, facendo festa con i defunti.
Ci sarebbe anche da sottolineare il fatto che dopo la caduta dell'impero d'occidente ha iniziato a farsi strada, pur senza prevalere mai del tutto, una prospettiva della morte e della sepoltura di origine germanica, quindi nomade, caratterizzata dal minimalismo della tomba, dalla sua omologabilità allo spazio circostante, contrapposta alla monumentalità del sepolcro di area mediterranea, quindi stanziale, come elemento fatto per durare nel tempo, e per far vivere una memoria di generazione in generazione (per questo argomento, vi consiglio di recuperare magari su youtube una bella puntata di Passpartout sul culto dei morti, di una decina di anni fa ormai...).
Ad ogni modo: dovremmo forse sforzarci di recuperare la morte come traccia del passato, non come paura in un futuro incerto.
Dovremmo cioè essere meno egoisti, non pensare alla nostra morte, che tanto arriva lo stesso, e invece, di fronte alla tomba, pensare a quanto ci hanno lasciato i nostri cari.
E' una sorta di piccola rivoluzione copernicana. Del futuro non sappiamo nulla, quindi non ha molto senso stare costantemente a scrutare le nebbie dell'orizzonte. Che dopo la morte vi sia o meno qualcosa, beh, questo è un problema che dovremmo porci dopo morti, perchè prima il mistero è irrisolvibile e, come diceva qualcuno, "Il problema senza soluzione non è un problema!"
I nostri defunti, nel bene e nel male, con i loro pregi e i loro difetti, hanno fatto sì che noi fossimo vivi, oggi, in questa maniera, in questo spazio, con le nostre forze e le nostre debolezze.
Prendiamo, quindi, il 2 novembre come una sorta di "elogio del passato", un recupero doveroso e sereno della memoria familiare, lasciando stare, per un attimo, gli ammonimenti che le tombe paiono dare ai vivi.
Mi piace chiudere con un passo di Meneghello, da "Pomo pero", proprio agli inizi del libro:
"Ci si sta comodi in tre in un secolo; una sessantina di persone da rintracciare tra me e i romani, qualche centinaio fino alle caverne, alcune migliaia tra me e i pitecantropi. E' curioso che a metterli tutti assieme si farebbe all'incirca un paese come il mio e si potrebbe venirci a conoscere tutti; è molto probabile che dell'intera serie sarebbero alfabeti solo gli ultimi tre, nonno, papà e in un certo senso io; tutti invece, per la natura stessa della linea divisoria, saprebbero parlare. Non so se sarebbe probabile, ma vorrei sperare che le lingue facessero una catena, almeno in fatto di comprensibilità: in fondo dev'essere ben raro che il figlio non s'intenda affato col padre, a parole. Si potrebbe dunque dirci qualunque cosa e aspettare che ciascuno la racconti all'altro, e alla fine veder ridere in fondo alla fila lo scimmiotto Meneghello, o noi minacciarlo col pugno".

mercoledì 17 ottobre 2012

Una piccola gioia...


Condivido con chi segue questo blog una bella notizia: il "Sillabario veneto" uscirà a breve nella sua terza edizione!

Un grazie di cuore a tutti coloro che hanno letto e apprezzato questo libro, e a quanti, con il passaparola, hanno permesso a un piccolo lavoro con una piccola casa editrice di farsi un po' di strada nel mare magnum della distribuzione...

A presto!

domenica 7 ottobre 2012

Nero 13 - Il giallo a Nord-Est

 
 
Con grande piacere vi informo che da oggi sarà disponibile nelle librerie tra Veneto e Friuli l'antologia di racconti"Nero 13", pubblicato dalla LIBRA EDIZIONI di Pordenone.
 
13 autori, tra cui il sottoscritto, si sono impegnati in altrettanti racconti brevi, ovviamente di genere giallo e noir, di ambientazione locale.
Precedentemente avevo dato l'annuncio, ma oggi posso fornire la copertina del libro...quindi  perdonate la parziale ripetizione!
Chi volesse una copia può contattare me via mail (sezione "contatti" del presente blog), oppure la casa editrice: libra@libraedizioni.it, per informazioni sulle vendite.
 

Intervista a Top Radio di Oderzo



A causa della mia scarsa competenza col mezzo informatico non sono ancora riuscito a scoprire se e in che modo sia possibile inserire nel blog un file audio... Mentre mi arrabatto in cerca di una soluzione, inserisco il link al sito dell'emittente che mi ha intervistato mercoledì 3 ottobre, dove potrete trovare il podcast per scaricare la nostra chiacchierata.

Ringrazio Top Radio per la bella occasione, e alla prossima!

domenica 30 settembre 2012

Di libri...




Da domenica prossima, 7 ottobre, sarà disponibile nelle librerie la raccolta di racconti noir e gialli "Nero 13 - Il giallo a nordest", uscita per la Libra Edizioni.
Il volume sarà presentato nell'ambito della rassegna "Grado Giallo". Ho partecipato all'antologia con un racconto "giallo storico" di ambientazione locale.
Non voglio anticipare molto (anche nella speranza che qualcuno abbia interesse a procurarsi il libro!)... posso dire che si parla di Marostica, che il racconto è ambientato nel secondo Quattrocento, e che argomento centrale sono le accuse infondate di omicidi rituali che in quello scorcio di secolo furono rivolte a diverse comunità ebraiche, da Trento a Portobuffolè, da Marostica a Innsbruck.
Un grazie anticipato a quanti avranno voglia di leggere!

lunedì 24 settembre 2012

PordenoneLegge 2012




Condivido con voi, più o meno a caldo, le sensazioni positive dell'incontro tenutosi ieri alle 19, presso il Ridotto del Teatro Verdi di Pordenone, nell'ambito della rassegna PordenoneLegge 2012.
Incredibile vedere la quantità di persone che l'evento riesce a raccogliere, una città invasa da schiere di lettori, diversi tra loro per età e interessi, eppure tutti lì, in coda di fronte agli ingressi, in attesa di poter ascoltare i dibattiti, le presentazioni, le discussioni.
Arrivare a Pordenonelegge non da lettore ma da scrittore è stata per me un'emozione davvero intensa. L'incontro che ho tenuto con Francesco Targhetta, grazie alla bella moderazione di Bruna Mozzi, è stato per me piacevole e ricco di spunti, e spero che anche il pubblico presente se la sia goduta!
Con un po' di vanità ho messo al collo il pass "AUTORE", anche se era di fatto assolutamente inutile, visto che ero già dentro il Ridotto, ma insomma, sono cose che capitano una volta ogni morte di papa, e allora cogliamo l'attimo!
Vedere, nel programma dell'evento, il mio nome inserito tra nomi del calibro di Philippe Daverio, David Riondino, Gianni Minà, Gianrico Carofiglio (l'elenco potrebbe continuare molto a lungo!) mi ha da un lato riempito d'orgoglio, dall'altro di senso di attesa e di preoccupazione: spero di essere stato all'altezza.
Infine, una nota ironica: arrivando a piedi al Teatro Verdi, ho visto una coda chilometrica di gente in attesa dell'apertura delle porte. Per un attimo (ma solo per un attimo...) ho sperato/temuto che fossero lì per l'incontro con me e Francesco Targhetta... Ovviamente no, erano in coda per Carofiglio.
La coda per l'ingresso al Ridotto del teatro, dove abbiamo tenuto la nostra presentazione, era giustamente molto più contenuta... ma, comunque, la coda c'era! Questa è stata un'altra soddisfazione che porterò con me.

Un grazie di cuore agli organizzatori, a Bruna Mozzi per la precisione e l'abilità nel gestire la discussione, un grazie particolare a Francesco Targhetta, per aver condiviso con me la sua esperienza e le sue prospettive, e infine un grazie a tutti i presenti!
Alla prossima... Speriamo!

sabato 25 agosto 2012

PordenoneLegge 2012


Comunico, con grande piacere e soddisfazione personale, che sono stato invitato all'evento PordenoneLegge 2012!

Il mio intervento si terrà DOMENICA 23 SETTEMBRE, alle ore 19.00 presso il ridotto del Teatro Verdi, assieme allo scrittore Francesco Targhetta.

Maggiori informazioni sul sito della Rassegna www.pordenonelegge.it

A presto!

paolo

lunedì 23 luglio 2012

Monte Piana - lunedì 6 agosto 2012



Lunedì 6 agosto, alle ore 10.30, ritrovo presso il Rifugio "Magg. Bosi" del Monte Piana per una presentazione itinerante di "Sul Grappa dopo la vittoria" nei luoghi della Grande Guerra sulle Dolomiti.

La presentazione si snoderà lungo il cammino storico delle trincee e delle fortificazioni italiane ed austriache del Monte Piana, e si concluderà con il pranzo al rifugio alle ore 13.00.

Per chi ama camminare, si può arrivare al rifugio Bosi parcheggiando nei pressi del Lago di Misurina e salendo a piedi (1 h circa) lungo la carrozzabile, seguendo le indicazioni.
In alternativa, è attivo un servizio di navette nei pressi del bivio per chi sale alle Tre Cime di Lavaredo.


NUMERI UTILI
-          Rifugio Magg. Bosi: 0435.39034- rifugiomontepiana@tiscali.it
-          Servizio navette: 338.5282447 (Lorenzo); 336.309730 (Raffaele)
-          Ufficio turistico di Misurina: 0435.39016
-          Siti web: www.montepiana.com; info@antonellafornari.com

Libri in osteria - 24 luglio


Domani martedì 24 luglio, alle ore 20.00 presso l'Osteria Madonnetta di Marostica (via Vajenti), presenterò il "Sillabario veneto" nell'ambito della rassegna "Libri in osteria".
Un saluto a tutti e buona estate!

Adria legge



Ringrazio di cuore gli amici del Presidio del Libro di Adria, la Libreria Apogeo, i musicisti e la moderatrice Fanny Quagliato per la bella serata di presentazione del "Sillabario veneto" di venerdì scorso.

A presto!

martedì 19 giugno 2012

Domenica 24 giugno, ricordando Meneghello



In occasione del quinto anniversario della scomparsa di Meneghello, domenica a Malo, dalle ore 16.30, si terrà una passeggiata letteraria per le strade del paese, partendo dal Museo Casabianca e toccando alcuni luoghi legati alla memoria dello scrittore e delle pagine dei suoi libri.

Alle ore 18.00, nel cortile di Villa Clementi (sede della Biblioteca Comunale, in Via Cardinal De Lai) è previsto un mio intervento:
"Da Maredè maredè al Sillabario Veneto - viaggio sentimentale tra le parole venete"

Parlerò del mio rapporto di lettore, insegnante e scrittore con Meneghello, toccando alcune pagine delle sue opere che mi sono particolarmente care.

Spero che vogliate partecipare!

Sabato 23 giugno




Cari amici, vi avviso che sabato 23 giugno alle ore 18 e 40, presso la Sala Narrativa della Biblioteca civica di Bassano del Grappa, l'attrice Martina Pittarello terrà una lettura di alcune pagine del "Sillabario veneto", nell'ambito della rassegna "Leggere per leggere", giunta al suo secondo anno.
Io sarò presente, siete tutti invitati!

domenica 17 giugno 2012

Ancora eroi - considerazioni di lingua

Secondo tempo di "Ramboso"... una parziale dimostrazione di quanto sostengo.


Una volta che si inizia una riflessione, è sempre meglio non lasciarla a metà. Almeno proviamoci.
Meneghello, in "Libera nos a Malo", scrive, tra le molte altre, una pagina stupenda sul rapporto dei bambini della provincia veneta alle soglie dell'età contemporanea e il cinema.
L'autore coglie subito nel segno, registrando come, di tutta la faccenda degli eroi western, era l'aspetto linguistico a lasciare l'orma più profonda e indelebile nella mente fervida e impressionabile nell'infanzia o nell'adolescenza.
"Ti coppiamo", minacciano, usando una bellissima doppia P, nel cortile improvvisamente divenuto lontano ovest, degli improvvisati soldati (nordisti o sudisti, non ricordo!) a un altrettanto estemporaneo nemico.
"Provate!", risponde il coraggioso, pronto alla battaglia.
E Meneghello ipotizza il legame di quel "provate", così strano, esotico nel lessico veneto di Malo, con il "Prove it" dell'inglese doppiato in italiano.
Eh già, non si può essere eroi senza un codice per esprimere degnamente il proprio eroismo. Come già affermato nel post precedente, l'inglese è di fatto una lingua giovane, epica per natura, secca e sonora, e, soprattutto, una lingua oggi divenuta globale.
L'eroe è eroe di tutti, pertanto deve parlare una lingua comune ai più. Il greco di Omero forse all'origine non era IL greco, ma lo è diventato. Il latino di Virgilio, quello con cui Enea parla dimostrando la sua pietas, di certo in origine non era IL latino, ma lo è diventato, proprio veicolando un'epica nella quale si è identificato un popolo.
Potremmo dunque ipotizzare l'esistenza di una sorta di triangolo, ai cui vertici stanno l'epica, la lingua, la nazione.
Re Artù, nazione anglosassone, lingua inglese.
Orlando, nazione franca, lingua d'oil.
Sigfrido, nazione germanica, lingua tedesca.
E l'Italia? Qual è il nostro Sigfrido?
Prima considerazione, di natura politica: la storica frammentazione della Germania non ne ha pregiudicato una coscienza unitaria, come non ha pregiudicato la sua unità linguistica. In altre parole: non serve necessariamente uno stato unitario per fare una lingua o una nazione.
Principio, questo, che potrebbe mettere tranquilli noi italiani.
Eppure la cronica assenza di un'èpos nazionale ha un che di inquietante, e a mio avviso si rispecchia anche nella cronica assenza di una lingua nazionale.
Non a caso si può dire che il primo nostro eroe nazionale sia Garibaldi, generato proprio quando, nelle scuole del regno, sull'onda dell'italiano manzoniano, lo Stato sabaudo cercava disperatamente un collante nell'immaginario collettivo, che di fatto ancora mancava.
Chi ha avuto o avrà la fortuna di leggersi le "Fiabe italiane" raccolte da Calvino, potrà facilmente constatare che in effetti in Italia è presente un immaginario collettivo, ma diffuso, declinato, innestato per così dire in cento modi diversi, perchè cento sono le lingue che hanno animato la cultura del nostro paese.
Fin qui, una semplice analisi dello status quo.
Ma non basta. Se le cose fossero andate per il verso giusto, oggi ognuna di quelle parlate regionale avrebbe mantenuto la stessa dignità, sarebbe ancora in grado, o per meglio dire, sarebbe ancora giudicata in grado di veicolare immaginari, racconti, eroi. Avremmo ancora le nostre epiche fatte magari non da Achille o Sigfrido, ma dal Gobbo Tabagnino, da Gesù e San Pietro, dal Salvanel, da Filomusso, da Giuanìn Benforte che a cinquecento diede la morte e avanti così.
I nostri piccoli eroi dialettali aggredirebbero da più fronti diversi i Moloch grecolatini o germanici, e li corroderebbero con l'intelligenza dei villani, con la risata volgare della scatologia e della flatulenza, ossia della merda e delle scorregge sulla cui forza apotropaica si basano tante fiabe del nostro passato (prossimo, non remoto come parrebbe!).
Saremmo un popolo gioioso e orgoglioso del nostro dna arlecchinesco, cangiante, metamorfico, inafferrabile eppure esistente, presente, colorato, sanguigno.
Non è andata così. Oggi non abbiamo più eroi, in Italia, perchè non abbiamo più una lingua. Beh, una ce l'abbiamo, e ce la facciamo andar bene, ma è la lingua fredda e cerebrale della norma calata dall'alto, del potere.
Non a caso, negli ultimi teatrini dei burattini, l'eroe di turno (a seconda della regione Arlecchino, o Pulcinella, o Fagiolino...) parla l'idioma locale, con cui irride e deride l'italiano affettato e impotente dell'antagonista (dottore, carabiniere o prete che sia).
E così facciamo parlare, agli eroi che importiamo dall'estero, la lingua che abbiamo imparato.
"Vivo o morto tu verrai con me". "Non sono venuto a salvare Rambo da voi, ma voi da Rambo!". "Non ho amici tra i civili", "Potevo ucciderli tutti, potevo uccidere anche te. In città sei tu la legge, qui sono io. Lascia perdere. Lasciami stare o scateno una guerra che non te la sogni neppure. Lasciami stare, lasciami stare". E chi più ne ha più ne metta.
Ma non ci siamo limitati a questo. Abbiamo relegato le lingue di quella che noi potremmo chiamare la nostra pre-cultura, a un livello deteriore, squalificato, indegno. Lingue della povertà e dell'ignoranza, lingue da dimenticare. La controprova?
Provate a pensare a un eroe di Hollywood che parla veneto. Rambo non dice "Murdoch! Sono io che vengo a prenderti", ma "Murdoch, orco .... (perchè la bestemmia in effetti ci starebbe bene)! Desso te ciapo!". Evidentemente non è la stessa cosa. Ci fa sorridere. Eppure non dovrebbe.
La cosa triste è che secondo Nietzsche il popolo che non è più in grado di crearsi eroi, è pronto a cadere.
Speriamo che non se ne accorga nessuno.


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mercoledì 30 maggio 2012

Dialogo di Eurialo e Niso

Le case di Ade non sono posti allegri. Achille stesso afferma di preferire una vita da porcaro piuttosto che una morte da re. Eppure, a differenza dell’oltretomba cristiano, nel mondo classico l’aldilà è inteso come una sorta di stallo definitivo della propria condizione, in cui le anime vivono nella perenne malinconica memoria della propria vita. Niente di cui stupirsi, dunque, se già prima di Dante le anime nell’oltretomba amassero chiacchierare.
“Niso, non vedo nulla. Dimmi, Niso, sei qui, al mio fianco, come credo e spero, oppure è anche questo un triste gioco del fato, e, lemure, parlo con lemuri?”
“Ci sono, Eurialo. Ma siamo entrambi ombre. E nemmeno io posso vedere alcunché. Diversa speravo la morte, diverso l’Ade. Invece è proprio come il padre Enea ce lo narrò, vuoto, freddo, solo”.
“Dimmi, Niso, perché morimmo? Non forse il fato ci ascrisse ben altro futuro che una selva di ombre e un mare di nebbia? Non ricordo… sì, ricordo la strage nera di cui disseminammo, arditi, il campo dei Rutuli sonnolenti. Ricordo la fuga, l’orrore. Ma poi?”
“Poi ci fu solo notte, Eurialo, notte senza luna. E non fu meglio così, in fin dei conti? Se bevendo alla fonte mnemosine, sotto l’alto cipresso all’entrata di queste tartaree case, dimenticasti della tua morte, perché desiderare il rinovellare quel dolore aspro al tuo e al mio cuore?”
“Perdono, Niso. Ti dimostri più saggio, anche ora. È davvero meglio così, vivere, o meglio, semplicemente essere, in questa vaga lattiginosa ombra, e non ricordare, e non dimenticare nulla”.
“Certo che così… No. Non me lo immaginavo certo. Sul campo tonante di mille zoccoli di fuoco, coperto il cielo profondo di aste e frecce e proietti, morire di orrida e sublime furia, con il vento negli occhi, sì, fin da giovane lo immaginavo, e, tremando, lo speravo. Ma fuggitivo, in un bosco di notte, sopraffatto da una schiera impari in numero e forze…”
“A me lo predisse un vecchio, quando ancora dovevo tagliare la prima barba. Mi fermò lungo il sentiero e mi annunziò la morte di notte. Ma da piccoli si vive come le bestie, o gli dei. E me ne dimenticai. Curioso. Di questo solo ora mi rammento. Del resto, sul campo o nel bosco o tra i neri flutti, quale differenza ci sarebbe per noi, qui?”
“Qui nessuna di certo. Ma nel mondo. Lì ora piangono due eroi morti nella fuga, non nella lotta”.
“L’importante è che piangano. Piuttosto, dove sbagliammo? Non fu forse una bella e nobile impresa la nostra? Non uguagliammo Odisseo e Diomede? Per Giove, ancora mi par di sentire vibrare nel pugno l’elsa nera di sangue nemico, mentre corro tra tende e bivacchi, seminando morte ignara e vigliacca. Fu proprio una bella notte”.
“La sete di armi belle e forti nel colpo. Troppo indugiammo tra i morti nel sonno, ricordi? Tu addirittura provasti più volte armi che mal si attagliavano alle tue forti membra, che qui solo in ombra ti è dato ostentare. Più parco conveniva cercare il bottino”.
“Troppo tardi. Nati alla gloria, nella morte che tutti uguaglia non troveremo certo la quiete. Una sola cosa mi stupisce, e se mai corpo vivo scenderà in queste lande buie, certo pregherò affinché nel mondo di sopra si sappia: la rapidità del trapasso”.
“Apri le tue parole, Eurialo, perché possa anche io giovarmi della tua intuizione”.
“Invero è pensiero dappoco. Ma se rifletti, Niso, i mortali donano tempo e dedizione alle loro opere in proporzione della loro importanza. Per cui, ad esempio, costruire una casa merita anni di lavoro, mentre cacciare il cervo è un passatempo nobile, ma da consumarsi in rapidità. Il grande inganno della morte è che, pur essendo forse l’atto supremo della vita, giunge senza avviso, e passa in un momento. Non credo sia giusto. Pensa a cosa avresti fatto, invece che razziare miseri cadaveri, se avessi saputo che la notte scorsa saresti morto, trafitto da arma nemica”.
“Richiami amare memorie, Eurialo, ma altro non resta in questo mondo. Non so, forse ti inganni. Forse è vana gloria dell’uomo la certezza che, nota l’ora della morte, la nostra vita scorrerebbe con ben altra drittura ed efficacia, come rapida freccia mortifera che, con sicura rotta, fende l’aria con sibilo di morte, certa del dove, e del come! Contro il fato ignoto tutti levano le loro proteste. Il contadino contro la grandine, il pastore contro il lupo, il guerriero contro la morte improvvisa. Ma non è forse vero che in realtà la morte è l’unica certezza che ci accomuna?”
“Sì, invero, hai la ragione. Non fatico vedi, a dartela. Sempre più esperto di me fosti, e ti tenni come maestro, non solo come amico, nel mondo di là; ma allora dimmi: perché mai, nonostante sia cosa certa, la morte peggio che fulmine o fiumana improvvisa sorprende i mortali? Di certo, ora che con calma mi fermo a riflettere, vedo che non mancano ad essa i segnali. La vecchiaia, la guerra, il dolore, o almeno la morte dei cari congiunti, sono come la nera nube che preannunzia tempesta sulle terre arate. Dunque? Si dirà che gli uomini sono ciechi e sordi al loro destino? Che tutti, grandi artefici, condottieri, filosofi e poeti, cadono nel medesimo errore degno di un fanciullo cui il nonno nasconda con abile mossa la mela di sotto il naso?”
“Non credo sia colpa della grande semplicità degli uomini. Credo invece che si tratti di un sottile inganno tesoci dai nostri peggiori nemici”.
“Chi dunque?”
“Gli dei, gli immortali. Loro sono la causa del nostro dolore. L’uomo, se fosse solo nel mondo, vivrebbe a misura di se stesso, e godrebbe del tempo della propria esistenza come di una semplice necessità cui non si scampa. Gli anni sarebbero lunghi abbastanza, la giovinezza sarebbe un periodo che, una volta morto, non si rimpiange oltre. Ma la dura condanna che il fato ci volle comminare fu di convivere con gli immortali. Questi esseri si mescolano a noi senza ritegno, ci amano, ci uccidono, ci parlano. Le dee si bagnano alle nostre fonti, gli dei possiedono le nostre fanciulle più belle. E che dunque? Come non cadere nell’aureo tranello della gioia eterna! Chi non desidera la giovinezza perenne avendo visto il florido petto di Afrodite? A che vale la consapevolezza della morte, quando ogni mattina Febo cavalca nei nostri cieli, biondo e possente, e sempre uguale a se stesso? Davvero, Eurialo, gli dei sono causa unica del nostro dolore. Rifletti: i nostri amori mortali finiscono nel pianto, nell’abbandono. Perché? Credimi: se non conoscessimo l’amore infinito e divino della callipigia, se non udissimo le gesta del padre Zeus, i nostri amorucoli terreni, fatti di sudore e schianti, rapidi e sporcati della fatica del lavoro, sarebbero ai nostri occhi i vertici unici cui il creato può giungere. L’essere passivi spettatori della grandezza degli immortali ci condanna all’invidia. E dato che l’invidia è madre dell’inganno, e tenendo per fermo che gli dei non si possono ingannare, che altro resta?”
“Capisco, buon Niso. L’ingannare se stessi”.
“Esatto. Ed ecco che l’amplesso con le giovani contadine diventa eterno amore, e la vita rapida e scontrosa diventa eterna. Non potendo evitare la nostra pochezza, la mascheriamo o, peggio, la ignoriamo. Salvo poi, quando arriva la delusione cocente, o ancor più la morte, chiamare all’inganno, al tradimento, maledire un’esistenza che ebbe come unica colpa l’essere condivisa con gli immortali”.
“Sì, dici bene Niso. Qui è buio. Troppo poco ho vissuto. Quale tristo miraggio mi ha condotto alla morte!”
“Non piangere, misera ombra. Abbiamo solo di un niente anticipato la nostra ora. Siedi qui, vicino a me. Ricordiamo ancora un poco…”

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domenica 6 maggio 2012

Domenica 13 maggio 2012


Ringrazio fin d'ora gli amici dell'Associazione treH2o per la bella opportunità! A domenica!

giovedì 26 aprile 2012


Piccola soddisfazione che condivido con voi, da lettore di Corona (in particolare il primo Corona, quello de "Il volo della martora" o "Gocce di resina")...
Speremo ben!

domenica 15 aprile 2012

Dialogo di Atteone e Tiresia

Diana e Atteone

Almeno dopo morti, è necessario immaginare un dialogo tra i due (s)fortunati uomini che videro delle dee nude.
“Caro Tiresia, ti assicuro che Diana al bagno è spettacolo necessariamente più raro e più bello di una Venere nuda”.
“Non celiare. È Afrodite dea dell’amore e quindi della bellezza, o no? Diana, al più, può essere uno spettacolo originale, ma il migliore…!”
“Dico che vedere Afrodite nuda non è cosa rara. Proprio in quanto dea dell’amore e dell’appetito sessuale, credo che qui nelle case di Ade più di qualche ombra alleggerisca la sua pena con la memoria delle belle natiche!”
“Vedo che è difficile farti ragionare, cacciatore. Del resto, non ho mai sentito, in vita, di una discussione conclusasi con il cambiamento di opinione di uno dei due contendenti. A maggior ragione qui nell’oltretomba non spero di convincerti. Dunque, racconta, dimmi di questa Diana”.
“Vecchio, ti manca la vista ma non la saggezza, lo riconosco. Dunque, con gioia te ne parlo. Ricordo che era mezzogiorno, e mi trovavo nel mezzo di un bosco di acacie. Non mi ero perduto, come qualcuno sostiene, ma stavo dall’alba seguendo un cervo dalle lunghe corna, ferito dalla mia rapida freccia. Quando il sole, perpendicolare sulla mia testa, fece scomparire le ombre all’intorno, mi resi conto di aver perduto le tracce dell’animale. Cosa questa, Tiresia, unica per me! Mai accadde che il grande Atteone venisse ingannato da un animale. Orbene, quel cervo, che credevo avere in pugno, mi sfuggì di sotto il naso. Poco male. Di cervi ne ho cacciati a miriadi, uno più o uno meno. Vista l’ora calda e il luogo solitario, decisi di stendermi al fresco. Deposi la faretra e l’arco, staccai la spada dalla cintola e mi immersi, nudo e sudato, nella macchia, alla ricerca del corso d’acqua di cui, tra lo stormire delle fronde e il raro frinire delle cicale, sentivo il non lontano sciacquio”.
“Atteone, che gioia hai provato, anche tu! Nude le membra, camminare soli nella selva ombrosa a mezzogiorno. Sentire il sudore della terra penetrare le narici, avvertire distintamente, alla base del collo, la presenza della divinità al tuo fianco. Chi si dice uomo dovrebbe almeno una volta, ma da giovane, provare tale entusiasmo!”
“Vedo che mi capisci, e che segui agilmente il mio pensiero, Tiresia. Ebbene, la resina quel giorno emanava un profumo che pareva mille volte più suadente; i pochi raggi del grande Elio che riuscivano a penetrare la fitta schiera di rami e di foglie sulla mia testa parevano aste di guerra, di duro diamante, penetrate disordinatamente da chissà quale mischia divina, e lì rimaste, immortali, a fare ancora più fitti gli ostacoli al mio passo. Vi fu, solo ora lo confesso, ma vi fu, un momento preciso in cui mi parve come se la terra desse un tremito, le poche e rinsecchite erbette si stendessero a bloccare il mio passo sempre più esitante. Nel cuore ebbi un tuffo, il respiro mi mancò per un attimo, come quando, fanciullo, attendi nel gioco che l’amico ti venga a discoprire del tuo puerile nascondiglio nel fieno o in mezzo all’erba. Se forse avessi tentennato, tutto, credo, sarebbe scomparso per sempre. Ma continuai”.
“E so a che ti valse questa tua ostinazione, Atteone!”
“Non interrompere il flusso della mia memoria, non ora, ti prego. Continuai dunque, ed ecco, prima ancora di uscire dall’intrico del bosso e del mirto, io la sentii. Ma non come quando s’ode il volo della pernice impaurita nell’aria serena dell’autunno, né come quando il cinghiale, spezzando cespugli rovi e radici, impazzando fugge il suo destino. Non udii suoni, né rumori. Io percepii la dea, essa mi chiamava a sé, mi penetrava prima ancora che la vedessi. Era come se mille dita di luce da mille direzioni mi legassero e mi baciassero le orecchie, e lentamente, ma senza sosta, mi tirassero verso un destino tremendo e necessario.
Non fui più Atteone, fui bosco e acqua. Ed ecco, al fine uscii dalla macchia, in una piccola radura, bagnata dalla luce e dalle acque pure di freddo torrente. Perché cercare di tradurre in immagini umane e in parole ciò che, essendo immortale, non si può che sognare? Io vidi Diana nuda. Diana la terribile, la grande, scherzava con le sue vergini sorelle blandita dall’onda, i biondi capelli inanellati di mille perle liquide, che, fesse dal sole, irraggiavano come corona di stelle dalla magnifica chioma della cacciatrice. Vidi la curva del fianco ove solitamente appoggia l’arco nell’atto dell’incoccata, ammirai la generosa mammella sinistra, sempre fasciata per dare agio al braccio di tendere fino in fondo il dardo mortifero. Io la vidi. Le studiai la schiena, sinuosa e snella, bianca di latte, e la coscia forte e veloce, dalla cui falcata non cane né sparviero possono osare trarre vittoria nella corsa”.
“Ma lei, Diana, non ti vide?”
“Come non mi vide, Tiresia! Come può la cacciatrice non udire e non vedere in tutto il bosco a lei sacro! Lei mi vide, da subito, e non solo. Lei mi volle. Mi tirò a sé, come la tigre è attratta nella buia trappola nel terreno fangoso dal cacciatore che ambisce ai suoi cuccioli. Fui preda, e dovetti ubbidire, e guardai avidamente. Lei non mi dava le spalle, Tiresia, era di profilo, e da subito mi avvidi che l’occhio vigile mi scrutava, sebbene la dea seguitasse a scherzare con le sue serve e compagne. Mi scrutava, e sorrideva. Ahi, vecchio cieco, i vivi scrivono e cantano della mia morte come se solo alla visione illecita di nude carni la si debba imputare. Falso! La colpa non fu nella visione della dea alla fonte, lei lo volle, siine certo. Colpa fu la mia d’aver, impavido, sostenuto lo sguardo e il sorriso tremendo della Cacciatrice. Mai vidi occhi più fieri e profondi, mai bocca più ferina e stupenda al tempo stesso. È lei la più grande predatrice, e la sua bocca di dea si è certo nutrita dei cuori di mille e mille vittime per apparire siffattamente cruenta di amore e morte”.
“Dissimili le nostre vicende Atteone, eppure così uguali! Certo di Afrodite peccai nel guardare il bel corpo pallido bagnato dalla fonte sul Parnaso. Ma quella dea non mi sorrise, anzi mi maledisse, e se non fosse stato per la antica alleanza della madre mia con la bella Venere, credo non solo la vista m’avrebbe sottratto la cipride. Ira disegnava il suo bel volto, non men bello sebbene corrugato da linee di rabbia, per esser stata discoverta da un pastore. E, posso dirtelo omai, non guatai certo il suo bel volto, ma fui rapito dalla morbida curva delle natiche visibili di sotto il liquido cristallo, dal generoso e morbido seno compresso dal braccio, a difesa dei dardi voluttuosi dei miei occhi. No, non fu nulla di simile al tuo rapimento, sebbene…”
“Sebbene sia cosa degna, morire o soffrire per la nudità divina”.

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