Ecco,
pensavano tutti, senza osar rompere quella cupa cappa di attesa, non sono stato
io ad entrare. Poco male, posso raccontare di esservi entrato per secondo o per
terzo, tra qualche anno poi dirò che sono stato io ad entrarvi per primo…
L’unico, nel gruppo, che aveva un’espressione palesemente soddisfatta, era
Giacomo, responsabile della scoperta della botola nascosta.
Improvvisamente
tutti, anche il grosso della masnada rimasta in attesa all’esterno della casa,
trepidando per l’evoluzione degli eventi, furono scossi e terrorizzati da un
grido di bestia ferita, da un urlo disperato, acuto e potente, di dolore totale
e di rabbia senza fine e senza perdono.
Come
una serpe, disturbata nel sonno, improvvisamente salta fuori dalla tana,
Menico, gettando spavento e scompiglio nel gruppo che lo attendeva sopra
l’apertura, ne uscì con un balzo ferino. Ogni suo muscolo era teso e guizzava
come una lucertola. I suoi occhi, già prima inebetiti e come annichiliti dal
dolore, ora erano orbite vuote, buchi neri senz’anima, trasudanti odio puro.
Nessuno di quanti lo videro si dimenticò, mai. Menico era indemoniato. Le
labbra arricciate scoprivano i denti e le gengive sanguinanti per la pressione
eccessiva e spasmodica del morso. Il collo era teso come una fascina di canne,
le vene pulsavano, le mani si aprivano e si chiudevano senza sosta, Menico era
ignaro di ferirsi i palmi con le unghie. Era ignaro di tutto. Un automa, una
bestia. Ululava e si dimenava senza raziocinio alcuno, urtava i presenti,
quanti provavano a trattenerlo, mordeva, graffiava, scalciava. Subito chi lo
vide, chi ebbe la sfortuna di guardarlo negli occhi, capì. Era perduto. Suo
figlio era perduto. E di fronte alla condanna a lungo paventata e ora
improrogabile, la debole mente di Menico, uomo laborioso e forte ma non certo
aduso alla riflessione, scivolò lentamente, ma in inarrestabile moto
concentrico, verso la follia.
Dopo
alcuni tentativi, riuscirono a bloccarne i movimenti, eppure, anche se
vincolato da numerose forti braccia, il corpo del povero padre sgusciava e si
torceva in mille innaturali torsioni, provocando brividi in chi lo teneva,
parendogli di avere per le mani, così dicevano anche ad anni di distanza, un
sacco pieno di vipere. Giacomo pensò che la ragione di una così repentina furia
dissennata giaceva nella botola, in quel buco lasciato aperto e dimenticato da
tutti, entro cui ancora baluginava il riflesso della fiaccola, abbandonata a
terra da Menico prima che balzasse fuori come una bestia braccata dal suo
nascondiglio.
Non ci
pensò quindi troppo su, temendo che il farlo gli avrebbe fiaccato il poco
coraggio che ora lo sospingeva verso l’ignoto terribile, e senza dire nulla agli
altri, tra lo stupore generale, si calò.
Una
volta nell’ambiente sotterraneo, Giacomo temette di svenire. Il fetore era
nauseabondo, opprimente e acre, una putredine somma ed annosa sembrava regnare
in quella cantina. La fiaccola lasciata dal padre impazzito giaceva a terra, in
un angolo, e la fiamma, lambendo la parete in terra battuta, fumigava
lentamente. Lungo il fondo della stanzetta, pensata dall’architetto, a suo
tempo, come una vera e propria dispensa, stavano, allineate ed in piedi, tre
bare, aperte.
Le
loro dimensioni e il loro pietoso contenuto non davano adito a dubbio alcuno.
Erano bare per infanti. In piedi, ma in realtà distesi sul fondo di legno,
assicurati maldestramente con alcune funicelle di cuoio, stavano tre cadaveri
di bambini, in vesti bianche. Giacomo sentì lo stomaco rivoltarsi, represse i
conati di vomito, oscillò pericolosamente, sull’orlo di uno svenimento. Si fece
forza, respirò a fondo l’aria pesante, ma pur sempre aria, osservò meglio.
Sicuramente i tre cadaveri erano di fanciulli, morti al massimo sui cinque
anni, forse anche meno. Dalle vesti, più ornate sugli orli, sebbene sempre
povere e semplici, e dalle poche tracce di capelli sul cranio, il cadavere più
piccolo si sarebbe detto di bambina. Di fronte, ai lati dei corpicini, fiori
secchi, fiori di campo, marciti nell’aria umida e stantia del sottosuolo,
ammorbavano ulteriormente l’ambiente di esalazioni dolciastre e putrescenti; in
un angolo, come gettate lì da una mano nemica, abbandonate come minuscoli
cadaverini anch’esse, delle bambole di pezza, di quelle riempite con le barbe
della pannocchia, con gli occhi di bottone e i capelli di lana nera, giacevano
ingiallite, ròse dai topi.
Giacomo,
recuperato un minimo di calma per ragionare, rifletteva su quello spettacolo
orrendo. Ciò che non gli tornava era la reazione di Menico. Era evidente che
quei cadaveri erano lì da anni, forse decenni. Il furore che aveva letto negli
occhi del padre disperato, invece, non lasciava adito a dubbi di sorta: egli
aveva chiaramente pensato che uno dei cadaveri fosse di suo figlio. Chissà,
probabilmente, straziato dal dolore, avrà pensato che la strega avesse
succhiato la giovinezza al figlioletto per garantirsi altri cento anni di vita;
oppure, più probabilmente, il suo dolore e la sua ansia erano tali da non
permettergli di cogliere un particolare del genere: già devastato
dall’angoscia, così convinto e certo di dover trovare il figlio, deluso dalla
ricerca infruttuosa, si era gettato smaniosamente nell’insperato varco apertosi
ai suoi piedi. Visto ciò che vide, si accontentò, per dire così, e fu certo di
aver finalmente trovato chi cercava.
Mentre
ponderava tali ragionamenti, Giacomo udì un trambusto improvviso sulla sua
testa, rumori confusi, esclamazioni soffocate. Una colluttazione. Pensò, intuì,
temette il peggio. Si precipitò verso l’apertura, vi si issò a fatica, pensando
per un attimo a come mai avesse potuto Menico balzarne fuori con tale foga. Fu
di nuovo nell’ambiente vuoto e sporco, ma mille volte meglio, più aperto e
salubre della dispensa sotterranea. Vide Delio, suo vicino di casa, riverso sul
pavimento, dolorante, con il naso sanguinante. Su di lui vegliava il fratello
minore, Fulvio. “L’è scampà de fora! L’è mato!” gridò il ragazzo, accennando
alla porta aperta che dava sul sentiero. Giacomo si precipitò all’esterno,
temendo il peggio.
Fortunatamente
per la Vecia, che giaceva ancora riversa in mezzo all’erba, legata, ma
all’apparenza sveglia e in buone condizioni, Menico era stato trattenuto prima
che potesse farsi giustizia da solo. In cinque lo bloccavano a terra; due
persone puntellavano le sue spalle e le braccia, altre due le gambe. Menico
schiumava, nero di rabbia animale, e cercava di mordere chiunque gli stesse
vicino, amico o parente che fosse. Gridava, e con ogni probabilità nelle sue
intenzioni quei versi inconsulti, gorgoglianti e satanici avevano un senso,
erano insulti, minacce, condanne, preghiere mescolate assieme. Giacomo, che non
voleva che l’amico si macchiasse di una colpa per la disperazione, fu
sollevato. Ora, pensava, si trattava di convincere i capipopolo ad interrogare
la Vecia con calma, magari la mattina dopo, e le cose si sarebbero chiarite.
Ma
all’improvviso nuove urla provennero dall’interno della casa. Urla di panico,
di paura superata e ora rinnovata e più acre. Uscirono di corsa Delio e Fulvio,
pallidi come cenci, e tra i singulti del terrore narrarono ai compaesani
increduli ciò che avevano visto nel sottosuolo. L’intera comunità esplose in
una babele di grida e di imprecazioni. Preghiere e bestemmie si legavano e si
slegavano nell’aria senza soluzione di continuità. Gli stessi anziani
capipopolo, fino a quel momento garanti dell’ordine dell’assemblea, si erano gettati
in ginocchio, e battendosi il petto gridavano al cielo, ora coperto e senza
stelle.
L’isteria
e il panico si erano impossessati di tutti. Se fino a quel momento si era agito
unicamente nell’ambito di una più o meno forte convinzione, ora c’era la certezza,
il dato, il fatto. La sommessa acredine nei confronti della Vecia, che solo in
Menico, ma per precise ragioni, aveva già sfondato nell’odio, ora fioriva in
istinto di autoconservazione violenta e prevaricatrice in ogni singolo uomo.
Già alcuni facevano minacciosi passi avanti verso la Vecia che, riversa e
silenziosa, fissava all’intorno con uno sguardo ebete. Già attorno a lei un
cerchio lentamente andava definendosi e chiudendosi, poco a poco, di pari passo
al clamore delle voci, via via più alte.
Giacomo
guardava con attenzione. Per prima cosa notò che coloro che fino a quel momento
avevano tenuto fermo a terra Menico con la sicurezza di chi agisce per il
proprio bene, ora si guardavano l’un l’altro, come incerti sul da farsi, e poi
guardavano Menico, non più con fermezza, ma con pietà, quasi con comprensione.
Nello stesso istante Giacomo vide i capipopolo confabulare brevemente tra loro,
ancora in preda ad una grande agitazione, toccarsi le barbe, acennare ora alla
casa del terrore, ora alla Vecia, ora a Menico. Giacomo si domandò che fare.
Per un attimo credette giusto intervenire, bloccare il marasma crescente,
condurre i capipopolo di sotto, ragionare, far capire. Ma poi, dopo aver meglio
osservato i volti dei suoi compaesani, cambiò idea. Ridevano. Ghignavano
felici. Erano sicuri di sé, anzi raggianti di essere nel giusto, di essere
tanti, e di aver individuato e sconfitto il male, l’infezione che ammorbava il
loro paese. Menico, poveraccio, era un demente in preda a cieco desiderio di
vendetta, e avrebbe ucciso anche la propria madre se avesse avuto, in quel
momento, il benché minimo sospetto nei suoi confronti.
Il
paese intero sguazzava, in quel momento, preda del proprio sadismo. Anzi, non
era sadismo, ma gioia di vivere, e gioia di aver la possibilità di eliminare
una minaccia tremenda. Era euforia, eccitazione, sicurezza. Giacomo si rese
conto di esservi dentro, quando gli parve che le fiaccole ardessero di più,
illuminando a giorno la scena drammatica. Eppure le fiaccole erano le stesse.
Erano gli occhi di Giacomo, gli occhi di tutta Sant’Osvaldo a essere ubriachi.
Gli sguardi erano lucidi, le fronti sudate, i gesti frementi. Giacomo non
decise di starsene in disparte. Capì piuttosto di esservi obbligato.
Opporsi
in quel momento al rito di purificazione violenta al quale i tranquilli paesani
si preparavano, con godimento febbrile e sconcia sicurezza, significava morire.
Leggeva negli occhi degli ultimi della calca la rabbia già repressa per non
poter essere i primi, per dover attendere. Giacomo ebbe in quell’istante la
capacità di salvarsi la vita, capendo che provare a fermare ciò che si era
innescato era equivalente a togliere il cibo da sotto il muso del mastino, a
separare due bestie durante l’amplesso. E non capì tutto ciò ragionando freddamente,
semplicemente lo sentì nell’aria, lo odorò. Sentì il profumo dolce del sangue,
le narici fremettero. Capì istintivamente da che parte stare, e lì stette.
Come
per incanto, come negli spettacoli di burattini l’orco appare da sotto la scena
all’improvviso, così nella ressa che già premeva ostilmente attorno alla Vecia,
ma ancora non osava nulla, come attendendo un segnale, un’autorizzazione,
emerse Menico, terribile. Vi furono delle urla, che parvero quasi dei guaiti, e
in molti si scansarono evitando il contatto con quella furia che ora, però,
pareva aver riguadagnato un minimo di freddezza. Camminava lento e a scatti, ma
il respiro era più regolare e lo sguardo, ancorché vitreo, aveva una luce di
umanità percettibile nel fondo della pupilla.
Di
fronte alla Vecia erano già giunti i capipopolo, che soli avevano l’autorità o
di salvare o di sferrare il primo colpo. Menico li raggiunse, sovrastandoli con
la propria mole. Non calò il silenzio, continuò un sordo mormorio di rabbia
all’intorno. I vecchi diedero un’occhiata larga, a tutti i paesani. Capirono
anch’essi, come Giacomo, che si era aggregato al branco, pur standosene in
fondo. Si fecero da parte.
La
Vecia non gridò, quando il primo colpo di mazza la raggiunse sulla schiena. Si
udì solo, frammisto all’ansimare ormai ringhioso degli uomini tutti, il rumore
sordo dell’osso che si spezza. Giacomo provò a vedere, ma non riusciva. Vedeva
solo un grumo di uomini sordi ai richiami, sudati, deformati nel volto, colpire
e colpire, in silenzio, con il ritmo di chi è abituato a battere il grano
sull’aia a luglio, con mazze, bastoni, zappe, forconi, falci. Vide, dopo poco,
i primi ritrarsi, lordi di sudore e d’altro, feriti alle mani. Quasi certamente
si erano colpiti anche tra loro, senza avvedersene. Partiti i primi, ebbri e
quasi sazi di rabbia e di omicidio, subentravano gli altri, che anzi con foga
maggiore, per sfogare la delusione di non aver affondato per primi nella carne
il proprio ferro, picchiavano, penetravano, spaccavano con furore maggiore, con
foga, frenesia, finché, come il contadino che all’udire il tuono lontano si
blocca e abbandona la falciatura affastellando in fretta il grano mietuto per
metterlo in salvo, anch’essi si fermavano all’improvviso, spesso con la vanga
sollevata sulla testa. Sbattevano le palpebre, respiravano un po’ più a fondo,
poi se ne andavano, in silenzio, senza salutare né accennare a nessuno, senza
torce, spesso senza giacca, sudati e incuranti del vento freddo che scendeva
dai monti; camminavano a capo chino, strascicando il loro attrezzo per terra,
inciampando sul sentiero tra sassi e radici.
Frattanto,
alle loro spalle, il rituale, la comunione di sangue, non aveva tregua. Molti
erano gli aspiranti a voler sferrare almeno un colpo. Molti anche i giovani,
costretti a restare indietro per rispetto dei padri e dei nonni, che alla fine,
estasiati da quella laboriosa frenesia, dall’insolita libertà che i parenti
concedevano loro, convinti infine di dover fare quel che facevano quasi come
un’iniziazione all’età adulta, si accingevano al loro momento con seria
compunzione sul volto, loro, forse, gli unici a non essere ebbri di odio, ma
altresì convinti e desiderosi di partecipare al truculento banchetto.
Giacomo
restò fino alla fine, accodandosi agli ultimi, senza fretta. Uno ad uno, vide i
suoi parenti, i suoi amici e i suoi nemici andarsene come incoscienti, vagare
nelle tenebre, forse verso casa. Vide anche un suo vecchio zio camminare
lentamente verso il bosco, in direzione opposta al paese, insensibile ai
richiami di chi, ancora in attesa del proprio turno, cercava di sapere, di
capire, e in questo caso anche di riportare sulla via maestra.
Chissà
quanto tempo passò prima che l’ultimo grassoccio ragazzino, rosso in volto e
nelle mani, abbandonasse il bastone rimediato lì nei pressi e corresse verso
casa, verso sua madre e il letto ben conosciuto e finalmente meritato. Forse
ore, forse minuti. Alla fine Giacomo restò solo. Il buio era totale, il
silenzio opprimente e maligno, l’aria, sebbene andasse lentamente purificandosi
negli effluvi del bosco e del torrente, manteneva una nota dolciastra e salata,
di rabbia, sudore, sangue, macello.
La
fiaccola ardeva ancora nella cantina. Scese di nuovo, a prenderla. Si interrogò
a lungo, in piedi, con la fiamma che illuminava e animava di riflessi incerti i
tre scheletri ricoperti di pochi rinsecchiti brandelli di epidermide, vestiti
con gli abiti che solitamente i bambini della valle indossavano il giorno della
prima comunione. Il silenzio era di tanto in tanto interrotto dal verso sommesso
ed amichevole di una piccola civetta, in lontananza. Era chiaro che tutto aveva
avuto fine, e la notte, quieta, proseguiva la sua lenta marcia verso il nuovo
giorno, come sempre.
Giacomo
non trovò la risposta a quei tre corpi, a quelle tre bare. Salì all’aria aperta
solo quando, sebbene fosse ancora buio, una nuova brezza, frizzante e fremente,
già premoniva la prossima aurora. Si avvicinò al luogo dove l’orrendo
assassinio si era consumato con indicibile lunghezza. Non v’era rimasto nulla
della Vecia. Nulla di riconoscibile, almeno. Migliaia di colpi erano caduti su
ciò che ora si presentava allo sguardo lucido e vitreo di Giacomo come una
macchia più scura nell’erba. Gli piacque pensare che già il primo colpo di
Menico l’avesse ammazzata. Non perché fosse convinto dell’innocenza della
Vecia, anzi, quei tre cadaveri antichi in cantina proiettavano sul suo cuore
ombre lugubri di paura e di dubbio. Ma era certo che nessuno di quei tre
corpicini appartenesse al piccolo scomparso. Non c’era rimasto molto da seppellire,
né avrebbe sepolto un corpo sul quale pesava ancora la maledizione della
comunità. Meglio non rischiare.
Tornò
a casa, e dormì le pochissime ore restanti, prima di alzarsi per una nuova
giornata di lavoro. Con gli amici e i parenti, che rivide la mattina seguente,
chi per strada chi alla segheria chi sulla diga che costruivano a valle, non
disse nulla. Nessuno accennò minimamente al fatto. Nessuno denunciò la
scomparsa della Vecia, nessuno la pianse.
I tre
corpi vennero sepolti nel cimitero del paese, in tombe senza nome. La Vecia
rimase lì dove l’avevano uccisa, a concimare la terra. Nessuno si arrischiava
ad entrare nel cortiletto, per paura di essere intrappolato in qualche
sortilegio satanico. Passarono alcune stagioni, e nei filò si iniziò a narrare
della strega uccisa da un gruppo di coraggiosi, una notte che essa aveva rapito
ed ucciso un bambino.
Poco
importò che il corpo del figliolo del Menico fosse emerso, alcuni giorni dopo
l’accaduto, parecchi chilometri a valle, presso San Donato. Nessuno ebbe la
prontezza di spirito, o la volontà, o il coraggio, per affermare ciò che, del
resto, era evidente a tutti.
Nessuno,
nemmeno il buon pievano, che, troppo giovane e cresciuto in altre zone, passò
saggiamente sopra al fatto, chiudendosi nel suo frutteto per due settimane,
uscendone solo per celebrare, pensò di consultare gli archivi parrocchiali, dai
quali, forse, sarebbero saltati fuori gli atti di nascita e di morte di tre
bambini, orfani di madre, di padre ignoto, allevati dalla nonna, portati via,
assieme a molti altri, dal tifo, più di trent’anni prima, sepolti nel cimitero
del paese e di lì misteriosamente trafugati pochi mesi dopo.
Dopo
quel furto macabro si erano rinfocolate storie di orchi e diavoli, senza che
nessuno però si scomodasse troppo a indagare, in un momento, del resto, in cui
era meglio starsene chiusi in casa con il naso nell’aceto balsamico piuttosto
che andare in cerca di cadaveri appestati, che non volevano starsene al loro
posto in camposanto.
Giacomo provò a dormire, nei giorni, nei mesi seguenti, come aveva
sempre fatto fin da bambino, ma il sonno non voleva più venirlo a trovare. Era
diventato pallido e magro, solitario e schivo. Partì per cercare lavoro nelle
grandi industrie della pianura due anni dopo. Partì senza salutare nessuno, di
notte.