sabato 17 marzo 2018

"Contrasti - La Grande Guerra nel racconto fotografico di Piero Calamandrei"


Vorrei parlarvi di un libro fotografico che mi ha stupito: si intitola “Contrasti – La Grande Guerra nel racconto fotografico di Piero Calamandrei” (Fondazione Museo storico di Trento, 2017, pp. 336, 55 euro), ed è curato da Silvia Bertolotti. Come garantisce già il sottotitolo, l’opera si presenta come un vero e proprio racconto per immagini, un itinerario che ci accompagna attraverso la guerra vista dagli occhi e dall’obiettivo fotografico di un Piero Calamandrei ventiseienne, partito volontario dopo il concorso per la cattedra di diritto civile dell’Università di Messina, e assegnato come sottufficiale alla Territoriale.
Vorrei dire molto su quanto ho provato leggendo e osservando il volume, ma sarei prolisso. Cerco quindi di procedere per punti.
Primo, il rigore nel metodo: la curatrice Silvia Bertolotti è riuscita con efficacia a restituire uno studio che accompagna il lettore con solidità e chiarezza, offrendo un’ampia introduzione sulle vicende del Calamandrei soldato, premessa necessaria alla fruizione dei documenti esposti successivamente, e arricchendo l’apparato fotografico, che costituisce ovviamente il centro del lavoro, con sezioni conclusive non meno interessanti del corpus maggiore delle raccolte fotografiche, ossia una silloge di cartoline inviate da Piero (con note riportanti il testo scritto sul retro) dall’inizio della guerra fino all’ingresso a Trento e Bolzano, e il testo di una conferenza tenuta da Calamandrei a Milano nel 1919, “Come entrammo in Trento”.
I percorsi fotografici che Calamandrei creò negli anni di fronte a mio avviso costituiscono un documento di straordinario interesse e assoluta originalità per almeno tre motivi:



1)      Raccontano una storia, sono cioè immagini legate da un senso, da una logica. Non sono foto di propaganda, né foto “tecniche”, fatte dall’esercito per studiare le zone del fronte. Sono foto scattate da un giovane sottufficiale che si pone in un atteggiamento mentalmente “attivo” rispetto al conflitto, non ne diventa succube. Le foto, al pari delle cartoline e delle lettere, diventano un modo per leggere la guerra, per filtrarla attraverso la mente del Calamandrei-soldato. Dai primi scatti a San Vito di Leguzzano, attraverso il Pasubio, la val Lagarina e su fino a Trento e Bolzano, le foto sono legate prima di tutto dallo sguardo di chi le ha scattate. Un esempio su tutti: a parte un’unica eccezione, Calamandrei sceglie di non fotografare mai feriti, morti, scenari di guerra. La prospettiva che ne emerge è quella di una guerra “di retrovia”, di attesa, di lavoro, in parte inedita e per questo ancora più interessante.

2)      Descrivono degli spazi. Questo aspetto può soprattutto interessare l’appassionato di storia del paesaggio in Veneto. Molte foto, infatti, non mostrano direttamente le zone di guerra (anche se, ad esempio, un buon numero di scatti immortala in modo straordinario la zona del Pasubio), ma riguardano paesi e scorci nelle retrovie. Ecco quindi che possiamo osservare, tra gli altri luoghi, Velo d’Astico, San Vito di Leguzzano, la Vallarsa, Valli del Pasubio, Posina, Arsiero. Luoghi che talvolta ci vengono mostrati profondamente toccati dal conflitto, ma che altrettanto spesso si rivelano in scorci agricoli, in vedute dall’alto, in paesaggi-cartolina affascinanti per chi conosce il profondo mutamento che nei decenni successivi interesserà tutto il Veneto.



3)      Lanciano un messaggio. Qui a mio avviso si gioca il valore aggiunto più significativo del racconto “per immagini” di Calamandrei, e qui risiede l’abilità più profonda che va riconosciuta alla curatrice della raccolta: sappiamo bene come talvolta (per non dire spesso) l’obiettivo apparentemente ovvio delle raccolte fotografiche sulla Grande Guerra sia, sic et simpliciter, la Grande Guerra. Per cui sembra quasi naturale richiedere alla documentazione fotografica la trincea, il cannone, la terra martoriata dai combattimenti, i cimiteri e i caduti. Quasi che si accettasse a priori e si desse per scontato che chiunque abbia vissuto la Grande Guerra abbia subito quel destino di annichilimento, di azzeramento della propria individualità di fronte alla guerra-macchina, divenendo necessariamente carne da cannone, scomparendo di fronte alla necessità della forza e del sangue. Anche in “Contrasti” si trovano foto di questo tipo, ma sono la minoranza e, almeno nel mio caso, non sono quelle a restarti nella mente una volta concluso il percorso di lettura. Calamandrei, forse sfruttando la prospettiva di cui poteva godere (sottufficiale impegnato nella Territoriale con compiti logistici e di appoggio alle prime linee), ma di certo anche facendo tesoro di una formazione umana e intellettuale che poi costituirà la base solida del suo futuro impegno nel diritto e nella politica, sembra cercare con ostinazione l’umanità attorno a lui. Le sue foto ci parlano soprattutto di questo, e in questo trovano, credo, una dimensione poetica e filosofica profondissima: il lavoro nelle retrovie, il riposo nelle baracche, il cameratismo, il paesaggio che resiste al conflitto. E, in e su tutto ciò, i volti. Volti sorridenti, seri, stanchi.
Non aggiungo altro e faccio parlare alcune foto. Sono scatti scelti proprio per questo motivo. La prima mostra un soldato ferito. La foto è del 3 luglio 1916, sul Pasubio. Calamandrei chiosa, nelle righe di accompagnamento: “è l’unica fotografia di feriti che abbia voluto fare, perché fu il ferito stesso, un siciliano colpito a una gamba, che me lo chiese ridendo”. Il volto dell’uomo si vede poco, ha la barba lunga, è abbronzato, ma i lineamenti del volto sorridente si vedono bene, e sono commoventi. Forse ride perché è vivo, forse perché quella ferita lo toglierà dalla prima linea per un paio di settimane, o forse per sempre. Ma ride, e mi pare che non conti altro.

Le altre due foto sono state scattate il 14 maggio del 1918 in Val Fredda, e fanno parte di una serie straordinaria: mostrano i soldati del XVII Gruppo Alpini intenti a godersi uno spettacolo di burattini, portato sul fronte da una compagnia di burattinai bolognesi. E dico sinceramente che mi commuove vedere quelle decine di ragazzi e di uomini intenti a seguire le mosse dei burattini nel teatrino. Si potrebbero fare facili discorsi pirandelliani, o ragionare sul cambiamento dell’immaginario dall’Italia contadina e preindustriale all’Italia del cinematografo e della radio, ma quello che mi ha impressionato di questi scatti è, in qualche modo, la normalità della scena. Forse non è vero, ma dalle immagini mi piace immaginare un grande silenzio tra i soldati, così da poter sentire anche da lontano le voci narranti. E mi piace avere la consapevolezza, grazie a questo documento straordinario, di come “raccontare storie”, anche soltanto con dei burattini, possa donare una sospensione dal tempo e dallo spazio. E forse era tutta lì la faccenda: che fossero diciottenni del ’99 o veterani con la Libia sulle spalle, hanno colto l’occasione e si sono goduti i burattini.