Vorrei parlarvi
di un libro fotografico che mi ha stupito: si intitola “Contrasti – La Grande
Guerra nel racconto fotografico di Piero Calamandrei” (Fondazione Museo storico
di Trento, 2017, pp. 336, 55 euro), ed è curato da Silvia Bertolotti. Come garantisce
già il sottotitolo, l’opera si presenta come un vero e proprio racconto per
immagini, un itinerario che ci accompagna attraverso la guerra vista dagli
occhi e dall’obiettivo fotografico di un Piero Calamandrei ventiseienne,
partito volontario dopo il concorso per la cattedra di diritto civile
dell’Università di Messina, e assegnato come sottufficiale alla Territoriale.
Vorrei dire
molto su quanto ho provato leggendo e osservando il volume, ma sarei prolisso.
Cerco quindi di procedere per punti.
Primo, il
rigore nel metodo: la curatrice Silvia Bertolotti è riuscita con efficacia a
restituire uno studio che accompagna il lettore con solidità e chiarezza,
offrendo un’ampia introduzione sulle vicende del Calamandrei soldato, premessa
necessaria alla fruizione dei documenti esposti successivamente, e arricchendo
l’apparato fotografico, che costituisce ovviamente il centro del lavoro, con sezioni
conclusive non meno interessanti del corpus
maggiore delle raccolte fotografiche, ossia una silloge di cartoline inviate da
Piero (con note riportanti il testo scritto sul retro) dall’inizio della guerra
fino all’ingresso a Trento e Bolzano, e il testo di una conferenza tenuta da
Calamandrei a Milano nel 1919, “Come entrammo in Trento”.
I percorsi
fotografici che Calamandrei creò negli anni di fronte a mio avviso
costituiscono un documento di straordinario interesse e assoluta originalità
per almeno tre motivi:
2)
Descrivono
degli spazi. Questo aspetto può soprattutto interessare l’appassionato di
storia del paesaggio in Veneto. Molte foto, infatti, non mostrano direttamente le
zone di guerra (anche se, ad esempio, un buon numero di scatti immortala in
modo straordinario la zona del Pasubio), ma riguardano paesi e scorci nelle retrovie.
Ecco quindi che possiamo osservare, tra gli altri luoghi, Velo d’Astico, San
Vito di Leguzzano, la Vallarsa, Valli del Pasubio, Posina, Arsiero. Luoghi che
talvolta ci vengono mostrati profondamente toccati dal conflitto, ma che
altrettanto spesso si rivelano in scorci agricoli, in vedute dall’alto, in
paesaggi-cartolina affascinanti per chi conosce il profondo mutamento che nei
decenni successivi interesserà tutto il Veneto.
3)
Lanciano
un messaggio. Qui a mio avviso si gioca il valore aggiunto più
significativo del racconto “per immagini” di Calamandrei, e qui risiede l’abilità
più profonda che va riconosciuta alla curatrice della raccolta: sappiamo bene
come talvolta (per non dire spesso) l’obiettivo apparentemente ovvio delle
raccolte fotografiche sulla Grande Guerra sia, sic et simpliciter, la Grande Guerra. Per cui sembra quasi naturale
richiedere alla documentazione fotografica la trincea, il cannone, la terra martoriata
dai combattimenti, i cimiteri e i caduti. Quasi che si accettasse a priori e si
desse per scontato che chiunque abbia vissuto la Grande Guerra abbia subito
quel destino di annichilimento, di azzeramento della propria individualità di
fronte alla guerra-macchina, divenendo necessariamente carne da cannone,
scomparendo di fronte alla necessità della forza e del sangue. Anche in “Contrasti”
si trovano foto di questo tipo, ma sono la minoranza e, almeno nel mio caso,
non sono quelle a restarti nella mente una volta concluso il percorso di
lettura. Calamandrei, forse sfruttando la prospettiva di cui poteva godere
(sottufficiale impegnato nella Territoriale con compiti logistici e di appoggio
alle prime linee), ma di certo anche facendo tesoro di una formazione umana e
intellettuale che poi costituirà la base solida del suo futuro impegno nel
diritto e nella politica, sembra cercare con ostinazione l’umanità attorno a
lui. Le sue foto ci parlano soprattutto di questo, e in questo trovano, credo,
una dimensione poetica e filosofica profondissima: il lavoro nelle retrovie, il
riposo nelle baracche, il cameratismo, il paesaggio che resiste al conflitto. E,
in e su tutto ciò, i volti. Volti sorridenti, seri, stanchi.
Non aggiungo altro e faccio parlare alcune foto. Sono scatti
scelti proprio per questo motivo. La prima mostra un soldato ferito. La foto è del
3 luglio 1916, sul Pasubio. Calamandrei chiosa, nelle righe di accompagnamento:
“è l’unica fotografia di feriti che abbia voluto fare, perché fu il ferito
stesso, un siciliano colpito a una gamba, che me lo chiese ridendo”. Il volto
dell’uomo si vede poco, ha la barba lunga, è abbronzato, ma i lineamenti del
volto sorridente si vedono bene, e sono commoventi. Forse ride perché è vivo,
forse perché quella ferita lo toglierà dalla prima linea per un paio di
settimane, o forse per sempre. Ma ride, e mi pare che non conti altro.
Le altre due foto sono state scattate il 14 maggio del 1918
in Val Fredda, e fanno parte di una serie straordinaria: mostrano i soldati del
XVII Gruppo Alpini intenti a godersi uno spettacolo di burattini, portato sul
fronte da una compagnia di burattinai bolognesi. E dico sinceramente che mi
commuove vedere quelle decine di ragazzi e di uomini intenti a seguire le mosse
dei burattini nel teatrino. Si potrebbero fare facili discorsi pirandelliani, o
ragionare sul cambiamento dell’immaginario dall’Italia contadina e
preindustriale all’Italia del cinematografo e della radio, ma quello che mi ha
impressionato di questi scatti è, in qualche modo, la normalità della scena.
Forse non è vero, ma dalle immagini mi piace immaginare un grande silenzio tra
i soldati, così da poter sentire anche da lontano le voci narranti. E mi piace
avere la consapevolezza, grazie a questo documento straordinario, di come “raccontare
storie”, anche soltanto con dei burattini, possa donare una sospensione dal
tempo e dallo spazio. E forse era tutta lì la faccenda: che fossero diciottenni
del ’99 o veterani con la Libia sulle spalle, hanno colto l’occasione e si sono
goduti i burattini.