Le
case di Ade non sono posti allegri. Achille stesso afferma di preferire una
vita da porcaro piuttosto che una morte da re. Eppure, a differenza
dell’oltretomba cristiano, nel mondo classico l’aldilà è inteso come una sorta
di stallo definitivo della propria condizione, in cui le anime vivono nella
perenne malinconica memoria della propria vita. Niente di cui stupirsi, dunque,
se già prima di Dante le anime nell’oltretomba amassero chiacchierare.
“Niso,
non vedo nulla. Dimmi, Niso, sei qui, al mio fianco, come credo e spero, oppure
è anche questo un triste gioco del fato, e, lemure, parlo con lemuri?”
“Ci
sono, Eurialo. Ma siamo entrambi ombre. E nemmeno io posso vedere alcunché.
Diversa speravo la morte, diverso l’Ade. Invece è proprio come il padre Enea ce
lo narrò, vuoto, freddo, solo”.
“Dimmi,
Niso, perché morimmo? Non forse il fato ci ascrisse ben altro futuro che una
selva di ombre e un mare di nebbia? Non ricordo… sì, ricordo la strage nera di
cui disseminammo, arditi, il campo dei Rutuli sonnolenti. Ricordo la fuga,
l’orrore. Ma poi?”
“Poi
ci fu solo notte, Eurialo, notte senza luna. E non fu meglio così, in fin dei
conti? Se bevendo alla fonte mnemosine, sotto l’alto cipresso all’entrata di queste
tartaree case, dimenticasti della tua morte, perché desiderare il rinovellare
quel dolore aspro al tuo e al mio cuore?”
“Perdono,
Niso. Ti dimostri più saggio, anche ora. È davvero meglio così, vivere, o
meglio, semplicemente essere, in questa vaga lattiginosa ombra, e non
ricordare, e non dimenticare nulla”.
“Certo
che così… No. Non me lo immaginavo certo. Sul campo tonante di mille zoccoli di
fuoco, coperto il cielo profondo di aste e frecce e proietti, morire di orrida
e sublime furia, con il vento negli occhi, sì, fin da giovane lo immaginavo, e,
tremando, lo speravo. Ma fuggitivo, in un bosco di notte, sopraffatto da una
schiera impari in numero e forze…”
“A me
lo predisse un vecchio, quando ancora dovevo tagliare la prima barba. Mi fermò
lungo il sentiero e mi annunziò la morte di notte. Ma da piccoli si vive come
le bestie, o gli dei. E me ne dimenticai. Curioso. Di questo solo ora mi
rammento. Del resto, sul campo o nel bosco o tra i neri flutti, quale
differenza ci sarebbe per noi, qui?”
“Qui nessuna
di certo. Ma nel mondo. Lì ora piangono due eroi morti nella fuga, non nella
lotta”.
“L’importante
è che piangano. Piuttosto, dove sbagliammo? Non fu forse una bella e nobile
impresa la nostra? Non uguagliammo Odisseo e Diomede? Per Giove, ancora mi par
di sentire vibrare nel pugno l’elsa nera di sangue nemico, mentre corro tra
tende e bivacchi, seminando morte ignara e vigliacca. Fu proprio una bella
notte”.
“La
sete di armi belle e forti nel colpo. Troppo indugiammo tra i morti nel sonno,
ricordi? Tu addirittura provasti più volte armi che mal si attagliavano alle
tue forti membra, che qui solo in ombra ti è dato ostentare. Più parco
conveniva cercare il bottino”.
“Troppo
tardi. Nati alla gloria, nella morte che tutti uguaglia non troveremo certo la
quiete. Una sola cosa mi stupisce, e se mai corpo vivo scenderà in queste lande
buie, certo pregherò affinché nel mondo di sopra si sappia: la rapidità del
trapasso”.
“Apri
le tue parole, Eurialo, perché possa anche io giovarmi della tua intuizione”.
“Invero
è pensiero dappoco. Ma se rifletti, Niso, i mortali donano tempo e dedizione
alle loro opere in proporzione della loro importanza. Per cui, ad esempio,
costruire una casa merita anni di lavoro, mentre cacciare il cervo è un
passatempo nobile, ma da consumarsi in rapidità. Il grande inganno della morte
è che, pur essendo forse l’atto supremo della vita, giunge senza avviso, e
passa in un momento. Non credo sia giusto. Pensa a cosa avresti fatto, invece
che razziare miseri cadaveri, se avessi saputo che la notte scorsa saresti
morto, trafitto da arma nemica”.
“Richiami
amare memorie, Eurialo, ma altro non resta in questo mondo. Non so, forse ti
inganni. Forse è vana gloria dell’uomo la certezza che, nota l’ora della morte,
la nostra vita scorrerebbe con ben altra drittura ed efficacia, come rapida
freccia mortifera che, con sicura rotta, fende l’aria con sibilo di morte,
certa del dove, e del come! Contro il fato ignoto tutti levano le loro
proteste. Il contadino contro la grandine, il pastore contro il lupo, il
guerriero contro la morte improvvisa. Ma non è forse vero che in realtà la
morte è l’unica certezza che ci accomuna?”
“Sì,
invero, hai la ragione. Non fatico vedi, a dartela. Sempre più esperto di me
fosti, e ti tenni come maestro, non solo come amico, nel mondo di là; ma allora
dimmi: perché mai, nonostante sia cosa certa, la morte peggio che fulmine o
fiumana improvvisa sorprende i mortali? Di certo, ora che con calma mi fermo a
riflettere, vedo che non mancano ad essa i segnali. La vecchiaia, la guerra, il
dolore, o almeno la morte dei cari congiunti, sono come la nera nube che
preannunzia tempesta sulle terre arate. Dunque? Si dirà che gli uomini sono
ciechi e sordi al loro destino? Che tutti, grandi artefici, condottieri,
filosofi e poeti, cadono nel medesimo errore degno di un fanciullo cui il nonno
nasconda con abile mossa la mela di sotto il naso?”
“Non
credo sia colpa della grande semplicità degli uomini. Credo invece che si
tratti di un sottile inganno tesoci dai nostri peggiori nemici”.
“Chi dunque?”
“Gli
dei, gli immortali. Loro sono la causa del nostro dolore. L’uomo, se fosse solo
nel mondo, vivrebbe a misura di se stesso, e godrebbe del tempo della propria
esistenza come di una semplice necessità cui non si scampa. Gli anni sarebbero
lunghi abbastanza, la giovinezza sarebbe un periodo che, una volta morto, non
si rimpiange oltre. Ma la dura condanna che il fato ci volle comminare fu di
convivere con gli immortali. Questi esseri si mescolano a noi senza ritegno, ci
amano, ci uccidono, ci parlano. Le dee si bagnano alle nostre fonti, gli dei
possiedono le nostre fanciulle più belle. E che dunque? Come non cadere
nell’aureo tranello della gioia eterna! Chi non desidera la giovinezza perenne
avendo visto il florido petto di Afrodite? A che vale la consapevolezza della
morte, quando ogni mattina Febo cavalca nei nostri cieli, biondo e possente, e
sempre uguale a se stesso? Davvero, Eurialo, gli dei sono causa unica del
nostro dolore. Rifletti: i nostri amori mortali finiscono nel pianto, nell’abbandono.
Perché? Credimi: se non conoscessimo l’amore infinito e divino della
callipigia, se non udissimo le gesta del padre Zeus, i nostri amorucoli
terreni, fatti di sudore e schianti, rapidi e sporcati della fatica del lavoro,
sarebbero ai nostri occhi i vertici unici cui il creato può giungere. L’essere
passivi spettatori della grandezza degli immortali ci condanna all’invidia. E
dato che l’invidia è madre dell’inganno, e tenendo per fermo che gli dei non si
possono ingannare, che altro resta?”
“Capisco,
buon Niso. L’ingannare se stessi”.
“Esatto.
Ed ecco che l’amplesso con le giovani contadine diventa eterno amore, e la vita
rapida e scontrosa diventa eterna. Non potendo evitare la nostra pochezza, la
mascheriamo o, peggio, la ignoriamo. Salvo poi, quando arriva la delusione
cocente, o ancor più la morte, chiamare all’inganno, al tradimento, maledire
un’esistenza che ebbe come unica colpa l’essere condivisa con gli immortali”.
“Sì,
dici bene Niso. Qui è buio. Troppo poco ho vissuto. Quale tristo miraggio mi ha
condotto alla morte!”
“Non piangere, misera ombra. Abbiamo solo di un niente anticipato la
nostra ora. Siedi qui, vicino a me. Ricordiamo ancora un poco…”
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