
“Non
trovi, Peter?” la domanda di Tina, ripetuta dalla ragazza con un accento di
infantile impazienza, destò Peter dalla china dei suoi pensieri. “Bah, Tina
mia, non saprei! Sai… non ti facevo così romantica, così prevedibilmente pronta
a difendere concetti come il completamento reciproco o l’affinità di due anime
congiunte dal fato. Stando a come la vedo io, tutto è frutto di tempo e
pressione. Guarda la montagna. Tempo e pressione. E tutto prende forma. Due
caratteri qualsiasi, uniti per un certo spazio di tempo e sottoposti a ben
precise pressioni, si deformeranno fino a combaciare perfettamente l’uno
sull’altro, e da tale attrito, come due zolle tettoniche, nasceranno splendide
ed ardite catene montuose, magnifiche a vederle svettanti sul blu del cielo, ma
semplice conseguenza, in realtà, di oscuri scontri sotterranei”.
I due
tacquero un istante, mentre si inerpicavano lungo un tratto di ghiaione
particolarmente impervio, in una zona in cui il sole, non arrivando mai, aveva
permesso ad alcune sfrontate lamine di ghiaccio di tendere i loro agguati agli
scarponi dei due alpinisti. Tina si voltò per un attimo verso l’abisso
sottostante. Ebbe un brivido, non di paura. Fu piuttosto una incontrollata
pulsione, un irrazionale desiderio di abbracciare l’aria, sporgendosi sul
nulla. La ragazza era inquieta. L’essere proiettata nel mondo del suo passato
le aveva dato una vertigine, un’ebbrezza sottile, l’ansia gioiosa della seconda
opportunità, il miraggio del tempo bloccato e ripiegato su se stesso, il
recupero virginale. In quel momento, in quel preciso istante, la presenza di
Gustav le sarebbe risultata indigesta, inappropriata. Non si trattava di
semplici ricordi, ma di una ben più straniante sensazione di ritorno ad una
dimensione che lei ben sapeva essere morta anni prima. Fu solo un momento, ma
bastò per sconcertarla. Ricacciò con poca decisione i pensieri che le si
affacciavano alla mente, affrettando il passo e rispondendo a Peter:
“Mio
Dio! Non ti facevo così succube del positivismo. Le edizioni di Zola sono
arrivate anche in quest’angolo remoto di idealismo, vedo. Dunque la relazione
tra due anime consiste, secondo te, solo nella deformazione data dal tempo e
dall’esperienza? A come la vedo io andrebbe inserita anche la terza variabile
del caso. Altrimenti, stando al tuo ragionamento, per creare coppie perfette
basterebbe abbandonare due sconosciuti su un’isola deserta e lasciare fare alle
zolle tettoniche, no?”
“E
sia!” rise Peter, “aggiungiamo pure il caso. Ma ciò non toglie validità al
concetto di base: non esiste l’individuo perfetto per te o per me, da qualche
parte nel mondo. Esiste invece il momento giusto in cui incontrare una persona:
solo un istante prima l’attrito tra due entità distinte avrebbe portato al
terremoto e alla frammentazione. Un istante solo, ed ecco che la pressione
genera il diamante”.
“E
adesso, caro il mio Fichte, tra noi due si prepara il terremoto o sboccia il
diamante?” la domanda, che voleva essere una battuta nelle intenzioni della
ragazza, si ripercosse con violenza nella mente di Peter che, nella fretta di
rispondere, rispose male:
“Dubito
che ci siamo mai incontrati, Tina. Né terremoti, né diamanti”.
Erano
giunti ai piedi della parete rocciosa. Il sole era al suo vertice nel cielo, e
il vento che saliva dalla valle era caldo e sapeva di resina. L’umidità
presente nell’aria, a contatto con la mole gelida della vetta, generava nembi
cupi, grevi e inquietanti.
“Credi
che ci sia il rischio di un temporale?” la voce di Tina raggiunse Peter con una
tranquillità così totale da apparire fredda. Peter, con la sua risposta, voleva
rassicurare se stesso e quella donna del suo passato così improvvisamente
ripiombata nel ritmo scandito da ricordi e rimorsi del suo tranquillo presente,
ma si rendeva conto che l’esito era stato del tutto opposto: mettendo le mani
avanti in maniera tanto netta e recisa, aveva dato l’impressione sgradevole di
un bambino che maschera l’attrazione per la propria compagna di banco tirandole
le treccine. Tina invece si era dimostrata matura e solida con quel tono così
tetragono, con quel suo cambiar discorso rapido. Lei aveva scherzato, lui no.
“Difficile
a dirsi in questa stagione. Ad ogni modo, anche se fosse, basta che ci
rifugiamo in un anfratto, ovviamente dopo aver abbandonato i ramponi e le
piccozze. Ma ad occhio e croce quei nembi mi sembrano solo di passaggio. È
l’ombra della montagna che li fa così neri”.
Erano
finalmente arrivati al punto nodale del loro itinerario. Finita la camminata,
ora iniziava la vera arrampicata. Di fronte a loro svettava il campanile della
cima, una parete granitica, all’apparenza perfettamente liscia, che saliva fino
a toccare il cielo con una lama di roccia e ghiaccio, seghettata e
inaccessibile. Solo ad un occhio esperto quella lastra di pietra gelida
rivelava sottili pertugi, scanalature, venature sulle quali lo scarpone avrebbe
potuto trovare un appiglio sicuro. Quella cima era una delle più ambite dagli alpinisti
amatoriali di tutto il circondario, perché, pur non essendo proibitiva,
consistendo in fin dei conti in poche decine di metri in verticale, tutti
esposti al sole e già segnati dai chiodi di generazioni di avventurieri, dava
allo scalatore l’ebbrezza del limite e del pericolo, con il suo ergersi al di
sopra di ogni vetta prossima, con quel dito quasi inquisitore puntato verso la
profondità della volta celeste.
Sia
Peter che Tina erano già stati là in cima, assieme. Più di una volta, a dire il
vero, ma Peter ricordava solo l’ultima ascesa. Erano soli, loro due, come
quella mattina, eppure tutto era differente. Nella sua memoria, anche la luce
solare riflessa dal ghiaccio e dal granito appariva più vivida e intensa. Quel
giorno aveva mandato avanti Tina, ad aprire la cordata a due. Si fidava di lei.
Chi non esperimenta in prima persona la scalata a due, a corda doppia, non può
capire. Non esiste davanti e dietro, come non c’è chi guida e chi segue. Quando
si sale in due, la fune che lega diventa cordone ombelicale, vincolo
inestricabile ed intimo, molto più che semplice simbolo: ognuno sa di dipendere
dall’altro, l’errore dell’uno può significare la morte di entrambi, e in una
così profonda interdipendenza non può che nascere l’amicizia. O l’amore.
Tina
era sicura e rapida nei movimenti, e quella mattina così colorata di… quando?
Sei, sette anni prima? Peter aveva intuito la profondità del loro legame, e si
era illuso che potesse essere eterno.
“Allora,
ti ricordi come si scala?” la domanda, chiaramente provocatoria, era arrivata a
Tina mentre fissava con un’espressione leggermente preoccupata la parete di
roccia. In quel preciso istante non si sentiva tranquilla. I suoi pensieri, il
ritorno così inopinato del suo passato alla luce della memoria, quella strana
repulsione per l’idea che Gustav sarebbe arrivato l’indomani mattina, e poi
Peter, così freddo e rigido nei suoi confronti, le avevano infuso nelle vene
una sorta di sottile disgusto, una nota cacofonica dalla quale non riusciva a
liberarsi. Per un istante la ragazza vagheggiò l’idea del ritorno all’albergo,
ma subito le si affacciò alla mente l’immagine scialba delle passeggiate al
massimo amene cui sarebbe stata destinata dopo il matrimonio, su sponde
tranquille, affollate di borghesi eleganti, di laghi alla moda. Quella cima
probabilmente sarebbe stata la sua ultima… ultima cosa? Ultima esperienza di
vita, di avventura? L’ultimo assaggio di paura, di abbandono a forze
incontrollabili? O solo l’ultimo, tardivo, tributo di una placida viennese a un
passato non più suo? Tina era chiaramente consapevole che quella scalata
sarebbe stata una delusione certa. Il compagno di giovinezza, il suo vecchio
Peter non aveva nulla a che fare con questo signore perso nelle abitudini e
nelle delusioni della vita di paese. Inoltre, sapeva che scalando avrebbe
faticato, avrebbe temuto di non farcela, sarebbe inevitabilmente riandata con
la memoria ai giorni in cui i suoi muscoli rispondevano meglio agli stimoli.
Senza contare il tempo, quel sole pallido e metallico, quei riflessi quasi
olivastri sul granito, che accecavano senza scaldare, quei nembi scuri in alto,
cui sarebbe ripetutamente andato lo sguardo durante la salita. Perché voler ad
ogni costo tributare un estremo sacrificio ad un tempo andato, con il rischio oltretutto
di rovinarsi la memoria con un revival di terz’ordine
“Scherzi?”
rispose Tina con un accento che voleva sembrare spavaldo, ma che si diluì sul
finale con un’ombra di dubbio che Peter, se riuscì a cogliere, ignorò.
Partirono. Peter individuava il chiodo davanti a sé, ne saggiava la resistenza
con la piccozza e, se lo trovava saldo, vi passava il moschettone. Tina, mano a
mano che il suo compagno arrivava alla tappa successiva, liberava la fune e lo
seguiva. La giovane fin dai primi metri fu felice di aver scelto di proseguire.
Aveva dimenticato molte cose fondamentali dell’arrampicata, piccole sensazioni,
parvenze di idee, ma assolutamente discriminanti: la percezione della viva
roccia sotto le dita, l’ansia quasi animale con cui tutto il corpo cerca di
penetrare la pietra, di trovarvi rifugio e salvezza; e poi la stranezza
dell’essere sospesi in verticale tra la terra e il cielo, l’avvertire il
solletichio inquietante del vuoto che grava sulla nuca, la consapevolezza che
dietro c’è la morte, sopra c’è la fine, sotto la sconfitta, e temere e
desiderare al tempo stesso di voltarsi, di contemplare, come il bimbo che
guarda nel buio della stanza, ciò che fa paura e ciò che rende vivi. O, in
realtà, ciò che fa paura è ciò che rende vivi? Tina era felice di salire, non
accusava la stanchezza, le gambe rispondevano quasi come cinque anni prima, e i
suoi movimenti erano rimasti precisi e sicuri. Non pensava a nulla del passato
e del futuro, la sua adolescenza era soffocata, Gustav era proiettato in un
futuro incerto di fronte alla totalità di quell’istante, in quel luogo. Tina
era consapevole di assaporare uno dei rari, veri attimi di libertà destinati ad
una vita comune, momenti dell’anarchia più vera, la ribellione al tempo, al
rimpianto del passato e alla paura del futuro: era contenta di sé, di ciò che
era, né di ciò che era stata, né di quanto voleva, o doveva, divenire.
Peter
saliva in silenzio, schiavo della memoria. Rivedeva se stesso seguire Tina e
sorridere, mentre la valle ai loro piedi dichiarava con la sua solarità di
essere, per sempre, loro serva. Erano due giovani divinità greche in quel
momento, eterni e perfettamente felici e crudeli. Erano puro sforzo, puro
attimo, irriverenza, spavalderia e sicurezza di sé. Peter in quell’istante
esatto ricordava, unico punto in tutta la sua esistenza, di non aver temuto il
futuro, di aver percepito dentro di sé l’alchimia esatta per dominare la
propria storia. Ora si percepiva estraneo a se stesso, dominato dal più
profondo senso di inadeguatezza riscontrabile da mente umana. Rivivere, sotto
lo scacco del tempo, la stessa esperienza che gli aveva offerto una briciola di
immortalità, lo esasperava, e ora si sentiva ridicolizzato da quella parete,
uguale a se stessa, divinità orribile cui i mortali si aggrappano inseguendo le
proprie chimere. Si vide vecchio e solo, inebetito dalla sclerosi dei ricordi,
e capì che quella cima, mentre lui si sarebbe spento nell’ombra umida di una
pensione a poco prezzo, avrebbe continuato a irridere la valle ed il mondo con
la sua presenza immota. Peter odiò se stesso e la montagna con tutte le proprie
forze.
Erano
le tre quando raggiunsero la cima. Quella lama di coltello che segava l’azzurro
del cielo in realtà, una volta violata, si rivelava assai accessibile: una
piattaforma di roccia nuda, macchiata qui e lì da chiazze di neve, che correva
lungo tutto il crinale della torre, con una larghezza dai cinque ai dieci
metri. Tutto attorno il nulla, tranne la sensazione stringente di essere
sospesi su un dito in un mare di cielo. I due si riposarono, dopo che Peter
ebbe riavvolto la fune, sedendosi al riparo di uno sperone di roccia che si
sollevava quasi come un dente dal pavimento di granito, facendo da scudo alle
gelide ed umide folate provenienti da nord. Tacevano entrambi, dominati da
sentimenti opposti. Ognuno fissava avanti a sé l’orizzonte. Tina ad un tratto
si piegò verso Peter e, passatogli un braccio attorno al collo, appoggiò la
testa sul suo petto. Peter non reagì, aveva dato la giusta interpretazione a
quel gesto: Tina gli era profondamente riconoscente, lo ringraziava per ciò che
aveva fatto, per ciò che era stato e aveva significato. Tutti tempi passati.
Ormai Peter era un faldone d’archivio per Tina. Lei aveva assaporato il
presente, scalando quella parete: lo aveva avvertito bene, Peter, dal modo in
cui la ragazza sotto di lui si muoveva, dalla delicata frenesia dei suoi gesti,
dall’ansia con cui l’aveva vista sbirciare il vuoto dietro di loro, quasi
ansiosa di arrivare, di vincere, di essere. Quello era davvero un gesto conclusivo,
riassuntivo.
“Sono
felice di essere qui, con te” mormorò Tina, “tu non hai idea di quanto abbia
significato questa salita. Non sono stati anni facili, per me, ho dovuto
cambiare esistenza, dimenticare tanti luoghi, tante persone. Oggi, grazie a te,
credo di essere riuscita a fare pace con una buona parte del mio passato”.
Peter
ascoltava e invidiava dal profondo quella ragazza che riusciva a fare i conti
con la propria storia, senza restare indietro, avendo la forza di risalire. Per
un attimo desiderò sessualmente quel corpo caldo appoggiato, abbandonato al
suo, pensò all’amplesso sulla cima, all’estasi del momento, alla percezione
istintiva e precosciente del possesso totale e al tempo stesso dell’abbandono
di un corpo all’altro. Ma, spingendosi oltre, percepì il brivido del risveglio
dall’ardore, il torpore delle membra, l’imbarazzo, la discesa prosaica e
volgare ad una vita anonima, ancora più vile a fronte di quell’istante sublime.
Si
limitò ad appoggiare il mento sui capelli morbidi e profumati della ragazza, e
a fissare le nuvole all’orizzonte, in fuga chissà dove. Un brivido scosse
entrambi.
“Forse
è meglio tornare, che ne dici? Mangeremo alla baita, con un buon thè” propose
Peter, sollevando piano il corpo di Tina. Lei non rispose, ma si alzò e si
fissò lo zaino, pronta a ridiscendere. “Sai” mormorò poi, dirigendosi verso la
parete a nord, quella opposta rispetto alla valle da cui erano ascesi “dovresti
venire a trovarci a Vienna qualche volta. Credo che le tue competenze e i tuoi
balzani gusti letterari interesseranno il mio Gustav”. Nel dire questo Tina,
incuriosita dalla maestosità del paesaggio, si era sporta sull’orrido cupo che
si apriva ai suoi piedi. Era uno spettacolo tremendo, quasi religioso: la
parete era estremamente più frastagliata e irregolare nei contorni, quasi che i
ghiacci e il vento si fossero sadicamente divertiti, con perizia da cerusico, a
violare la roccia, deformandone i contorni. Ovunque neve e pietre rompevano
l’armonia della parete, dando allo scenario un aspetto da romanzo gotico. Su
tutto, però, ciò che inquietava maggiormente era l’ombra della montagna, scudo
eterno ai raggi del sole. Sembrava quasi che i minerali stessi, gli eterni
graniti ne avessero assorbito i toni cupi e opachi, che il buio avesse modificato
la sostanza della materia, svilendola e ammorbandola di un livore mortifero.
“Peter,
sai se qualcuno è mai salito da questo versante?” chiese Tina, accingendosi a
tornare sui suoi passi, per preparare la discesa. Peter, alle sue spalle, in
silenzio, immaginava.
La
spinta è così repentina e decisa che la ragazza non ha materialmente il tempo
per prendere coscienza di quanto stia avvenendo. Il suo corpo registra
fedelmente le percezioni, ma il cervello impiega un po’ di tempo prima di
riordinarle e capirle, cosicché il panico arriva solo quando i due corpi sono
già precipitati per i due terzi del burrone. Tina vede il cielo, vede la cima
della torre, dalla quale poco prima stava contemplando il panorama,
allontanarsi paurosamente, come se si stesse sollevando a velocità siderale,
spinta da chissà quali forze ctonie. Solo una frazione di secondo più tardi,
grazie al sibilo del vento e al respiro che le manca, capisce che non è la
torre ad innalzarsi, ma lei a precipitare. Istintivamente cerca di muoversi: un
gesto meccanico, non razionale, in cerca di un appiglio, ma Tina in
quell’istante si rende conto di essere bloccata, e solo allora, stranamente,
sente, comprende che Peter la tiene abbracciata a sé, immobilizzandola. I suoi
occhi fanno appena in tempo a registrare il volto dell’uomo sospeso sul suo, i
suoi occhi torvi e lucidi, accesi in un ghigno infernale e vuoto. Tina inspira
quanto più ossigeno può, per gridare, istintivamente, perché ora sente il
panico animale prenderle il corpo e trascinarlo verso la sopravvivenza, ma è
tutto inutile. I due corpi si schiantano con un sordo rumore di morte sulle
rocce puntute del fondovalle. L’ultimo pensiero cosciente di Tina, prima che il
terrore le annebbi la mente e l’adrenalina le anestetizzi le membra, risparmiandole
almeno il dolore, è che da piccola possedeva una bambola di porcellana la cui
espressione, vuota e trasognata, era comicamente simile a quella di
Peter.
“Non
che io sappia. Troppo difficile e pericoloso”.
Si
salutarono, a sera ormai fatta, sulla porta dell’Hotel. Un paio di volte, i
giorni seguenti, Peter la vide camminare lungo il corso principale,
sottobraccio a un galante signore dall’aria trasognata e triste, singolarmente
simile alla sua. Non ebbe più occasioni per parlarle; lei partì agli ultimi di
agosto.
Questa opera di www.paolomalaguti.it è concessa in licenza sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.