domenica 26 aprile 2020

Buon 26 aprile!

Buon 26 aprile! Il 25 Liberazione e Resistenza si celebrano, dal 26 in poi dovremmo esercitarle. Come? Sono due sostantivi differenti ma legati assieme da una base semantica di forza. La liberazione appare dinamica, si accampa nella mente come movimento, rottura di vincoli. La resistenza rimanda a una forza statica e passiva: riuscire a non muoversi in seguito a una spinta, non cedere a una pressione, tener botta.
Alla luce di ciò mi pare che la resistenza sia propedeutica alla liberazione. Cioè: in una condizione di costrizione, prima resisto alla stessa, e poi mi libero.
Pescando dal latino, possiamo ipotizzare che la liberazione sia connessa al termine VIS, la forza dinamica, mentre la resistenza sia legata al termine ROBUR (o robus), la forza statica, della quercia saldamente ancorata al terreno.
Nella celebrazione del 25 aprile le formule utilizzate afferiscono in gran parte alla "liberazione dall'occupazione nazifascista".
Formula abbastanza generica, ma che viene naturale calare nell'ultimo momento del fascismo e della guerra, dall'otto settembre del '43 in poi.
Credo che le categorie Liberazione e Resistenza debbano essere rapportate, sempre e con chiarezza, all'intero ventennio fascista. Solo così possono assumere dei contorni più chiari le scelte e i gesti di chi seppe resistere e di chi seppe liberare.
Per venti anni il fascismo ha governato l'Italia. Per vent'anni agli occhi dei cittadini fascismo e Stato si sono mostrati come entità sovrapposte e intrecciate, e per vent'anni il fascismo ha penetrato i gangli più profondi della macchina statale e della società, costruendo un sistema che, tra gli altri, aveva l'obiettivo di autolegittimarsi.
Attenti alle azioni più eclatanti che il fascismo ha compiuto per costituire e poi mantenere la sua struttura, a volte dimentichiamo quanto il fascismo entrasse nelle vite "normali" dei cittadini.
Porto due esempi (anche in foto), che ho ripescato nella mia libreria.
Il primo è una versione di latino, tratta dal volumetto "Epitome di Cultura Fascista" (rispetto le maiuscole per rigore filologico), sottotitolo: "Ad uso degli alunni del II III e IV anno di Latino". Anno di edizione 1938-XVI.
La terza versione, che trovate in foto, si intitola "Vir", e inizia così "Benitus Mussolini ex humili opifice natus sollertique ludi magistra naturam ferocem sortitus est".
La seconda foto ci porta sul Grappa. Si tratta di un opuscolo dal titolo "Monte Grappa tu sei la mia patria...", costo lire 2, senza anno di pubblicazione; è una piccola guida, che potremmo definire storico-turistico-patriottica, al sacrario del Grappa.
Il testo che spiega la storia del sacrario e di Cima Grappa si presenta come il discorso che un padre, reduce di guerra, fa a suo figlio, che ha accompagnato in pellegrinaggio in quei luoghi.
Riporto le prime righe, credo siano sufficienti:
"Vieni, figliuolo, t'ho insegnato quand'eri bimbo, a scoprirti il capo entrando in chiesa. Ora togliti il fez nero, che fa sì bella la tua fronte. Ricordati: ti ho messo questa camicia non per sfilare nei cortei cittadini e fare il bello in piazza. Ti ho voluto fascista perch'io fui combattente".
Quindi: gli italiani nati (vado a spanne, ma il senso è chiaro) tra il 1910 e il 1930 sono cresciuti in un sistema che usava tutti i mezzi a sua disposizione per fascistizzare i propri cittadini.
Ogni volta che leggo testi del genere mi pongo due domande.
La prima: se fossi stato io uno di quei liceali del 1938, sarei stato in grado di non essere fascista? Non lo so. Sono stato uno studente molto timoroso dell'autorità, molto diligente e desideroso di avere successo seguendo le regole che mi venivano mostrate. Quindi forse avrei accettato quanto mi veniva insegnato da persone di cui mi fidavo.
La seconda domanda è spesso al centro delle discussioni quando vado nelle scuole a parlare di "Prima dell'alba". Appare chiaro che, alla luce di quanto ci siamo detti, resistenza e liberazione si configurarono, in ogni antifascista e in ogni partigiano, specie se giovani, in almeno un momento iniziale di rottura delle regole, di disubbidienza.
Quindi, seguendo questo ragionamento, è chiaro che riconoscere nella Resistenza e nella Liberazione due elementi fondativi dell'Italia democratica e repubblicana, significa riconoscere nella disubbidienza un sale importante del vivere civile. O almeno, ragionando "e contrario": riconoscere che l'ubbidienza non è (lo metto in maiuscolo via), NON E' un valore etico in sé.
Mi appoggio a due citazioni, il "nessun uomo ha il diritto di obbedire" di Hannah Arendt, e "l'obbedienza non è più una virtù" di Don Milani.
Arrivo alla domanda che mi pongo sempre con grande difficoltà in qualità di insegnante: sono dunque in grado di comunicare ai miei studenti che l'ubbidienza non è in sé un valore? Che può arrivare un momento in cui la disubbidienza è la via? Ancora, sono in grado di lavorare con loro perché maturino la più sfuggente e nobile delle competenze, il pensiero critico che li metta in condizione di capire in autonomia se e quando le regole che rispettano sono ingiuste?
Grazie a dio ci sono le domande ad animare le nostre vite!



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