giovedì 1 novembre 2012

2 novembre


Lasciamo stare Halloween.
Tolte le maschere di questo piovoso pseudocarnevale, tolti i petardi nelle buche delle lettere, tolti gli anglofili "dolcetto o scherzetto" che riecheggiano per le vie, ricordandoci quanto siamo succubi di altre culture e altri valori, l'inizio di novembre è affascinante.
Ho sempre ammirato la perfezione, frutto di secoli di osservazioni ed equilibri, dell'anno cristiano. Le distanze tra le festività, le rispondenze implicite tra di esse, l'equilibrio tra stagioni e riti, tra clima e sacralità.
Frutto certo anche di contaminazioni con le preesistenti religioni del pagus, ma non solo.
Mi piace questo commemorare i defunti all'inizio dell'autunno, quando la natura si addormenta in una morte apparente, quando le giornate sfioriscono assieme alle foglie degli alberi, e il sole si fa come più lontano, più indifferente. E' un momento adatto, questo, per ragionare di morte.
Non serve aver letto "I Sepolcri" di Ugo Foscolo per capire che siamo figli (e Halloween tutto sommato ne è la riprova) di una visione recenziore, gotica e nordica, della morte come elemento terrorifico: la vecchia signora con la falce, il cimitero diroccato, tutto croci di pietra inclinate e coperte di muschio, e cancelli cigolanti.
C'è chi sostiene, e se non erro Foscolo è tra questi, che tale visione negativa della morte sia stata instillata nella nostra cultura dalla religione cristiana che, facendo coincidere il trapasso con il giudizio, ha avvolto in un mistero pauroso questo momento inevitabile dell'esistenza.
Certo, non doveva essere male vedere, nei tempi di Roma antica, le famiglie libare, in una sorta di picnic cimiteriale, sui sepolcri degli avi, facendo festa con i defunti.
Ci sarebbe anche da sottolineare il fatto che dopo la caduta dell'impero d'occidente ha iniziato a farsi strada, pur senza prevalere mai del tutto, una prospettiva della morte e della sepoltura di origine germanica, quindi nomade, caratterizzata dal minimalismo della tomba, dalla sua omologabilità allo spazio circostante, contrapposta alla monumentalità del sepolcro di area mediterranea, quindi stanziale, come elemento fatto per durare nel tempo, e per far vivere una memoria di generazione in generazione (per questo argomento, vi consiglio di recuperare magari su youtube una bella puntata di Passpartout sul culto dei morti, di una decina di anni fa ormai...).
Ad ogni modo: dovremmo forse sforzarci di recuperare la morte come traccia del passato, non come paura in un futuro incerto.
Dovremmo cioè essere meno egoisti, non pensare alla nostra morte, che tanto arriva lo stesso, e invece, di fronte alla tomba, pensare a quanto ci hanno lasciato i nostri cari.
E' una sorta di piccola rivoluzione copernicana. Del futuro non sappiamo nulla, quindi non ha molto senso stare costantemente a scrutare le nebbie dell'orizzonte. Che dopo la morte vi sia o meno qualcosa, beh, questo è un problema che dovremmo porci dopo morti, perchè prima il mistero è irrisolvibile e, come diceva qualcuno, "Il problema senza soluzione non è un problema!"
I nostri defunti, nel bene e nel male, con i loro pregi e i loro difetti, hanno fatto sì che noi fossimo vivi, oggi, in questa maniera, in questo spazio, con le nostre forze e le nostre debolezze.
Prendiamo, quindi, il 2 novembre come una sorta di "elogio del passato", un recupero doveroso e sereno della memoria familiare, lasciando stare, per un attimo, gli ammonimenti che le tombe paiono dare ai vivi.
Mi piace chiudere con un passo di Meneghello, da "Pomo pero", proprio agli inizi del libro:
"Ci si sta comodi in tre in un secolo; una sessantina di persone da rintracciare tra me e i romani, qualche centinaio fino alle caverne, alcune migliaia tra me e i pitecantropi. E' curioso che a metterli tutti assieme si farebbe all'incirca un paese come il mio e si potrebbe venirci a conoscere tutti; è molto probabile che dell'intera serie sarebbero alfabeti solo gli ultimi tre, nonno, papà e in un certo senso io; tutti invece, per la natura stessa della linea divisoria, saprebbero parlare. Non so se sarebbe probabile, ma vorrei sperare che le lingue facessero una catena, almeno in fatto di comprensibilità: in fondo dev'essere ben raro che il figlio non s'intenda affato col padre, a parole. Si potrebbe dunque dirci qualunque cosa e aspettare che ciascuno la racconti all'altro, e alla fine veder ridere in fondo alla fila lo scimmiotto Meneghello, o noi minacciarlo col pugno".

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