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Diana e Atteone
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Almeno
dopo morti, è necessario immaginare un dialogo tra i due (s)fortunati uomini
che videro delle dee nude.
“Caro
Tiresia, ti assicuro che Diana al bagno è spettacolo necessariamente più raro e
più bello di una Venere nuda”.
“Non
celiare. È Afrodite dea dell’amore e quindi della bellezza, o no? Diana, al
più, può essere uno spettacolo originale, ma il migliore…!”
“Dico
che vedere Afrodite nuda non è cosa rara. Proprio in quanto dea dell’amore e
dell’appetito sessuale, credo che qui nelle case di Ade più di qualche ombra
alleggerisca la sua pena con la memoria delle belle natiche!”
“Vedo
che è difficile farti ragionare, cacciatore. Del resto, non ho mai sentito, in
vita, di una discussione conclusasi con il cambiamento di opinione di uno dei
due contendenti. A maggior ragione qui nell’oltretomba non spero di
convincerti. Dunque, racconta, dimmi di questa Diana”.
“Vecchio,
ti manca la vista ma non la saggezza, lo riconosco. Dunque, con gioia te ne
parlo. Ricordo che era mezzogiorno, e mi trovavo nel mezzo di un bosco di
acacie. Non mi ero perduto, come qualcuno sostiene, ma stavo dall’alba seguendo
un cervo dalle lunghe corna, ferito dalla mia rapida freccia. Quando il sole,
perpendicolare sulla mia testa, fece scomparire le ombre all’intorno, mi resi
conto di aver perduto le tracce dell’animale. Cosa questa, Tiresia, unica per
me! Mai accadde che il grande Atteone venisse ingannato da un animale. Orbene,
quel cervo, che credevo avere in pugno, mi sfuggì di sotto il naso. Poco male.
Di cervi ne ho cacciati a miriadi, uno più o uno meno. Vista l’ora calda e il
luogo solitario, decisi di stendermi al fresco. Deposi la faretra e l’arco,
staccai la spada dalla cintola e mi immersi, nudo e sudato, nella macchia, alla
ricerca del corso d’acqua di cui, tra lo stormire delle fronde e il raro
frinire delle cicale, sentivo il non lontano sciacquio”.
“Atteone,
che gioia hai provato, anche tu! Nude le membra, camminare soli nella selva
ombrosa a mezzogiorno. Sentire il sudore della terra penetrare le narici,
avvertire distintamente, alla base del collo, la presenza della divinità al tuo
fianco. Chi si dice uomo dovrebbe almeno una volta, ma da giovane, provare tale
entusiasmo!”
“Vedo
che mi capisci, e che segui agilmente il mio pensiero, Tiresia. Ebbene, la
resina quel giorno emanava un profumo che pareva mille volte più suadente; i
pochi raggi del grande Elio che riuscivano a penetrare la fitta schiera di rami
e di foglie sulla mia testa parevano aste di guerra, di duro diamante,
penetrate disordinatamente da chissà quale mischia divina, e lì rimaste,
immortali, a fare ancora più fitti gli ostacoli al mio passo. Vi fu, solo ora
lo confesso, ma vi fu, un momento preciso in cui mi parve come se la terra
desse un tremito, le poche e rinsecchite erbette si stendessero a bloccare il
mio passo sempre più esitante. Nel cuore ebbi un tuffo, il respiro mi mancò per
un attimo, come quando, fanciullo, attendi nel gioco che l’amico ti venga a
discoprire del tuo puerile nascondiglio nel fieno o in mezzo all’erba. Se forse
avessi tentennato, tutto, credo, sarebbe scomparso per sempre. Ma continuai”.
“E so
a che ti valse questa tua ostinazione, Atteone!”
“Non
interrompere il flusso della mia memoria, non ora, ti prego. Continuai dunque,
ed ecco, prima ancora di uscire dall’intrico del bosso e del mirto, io la
sentii. Ma non come quando s’ode il volo della pernice impaurita nell’aria
serena dell’autunno, né come quando il cinghiale, spezzando cespugli rovi e
radici, impazzando fugge il suo destino. Non udii suoni, né rumori. Io percepii
la dea, essa mi chiamava a sé, mi penetrava prima ancora che la vedessi. Era
come se mille dita di luce da mille direzioni mi legassero e mi baciassero le
orecchie, e lentamente, ma senza sosta, mi tirassero verso un destino tremendo
e necessario.
Non
fui più Atteone, fui bosco e acqua. Ed ecco, al fine uscii dalla macchia, in
una piccola radura, bagnata dalla luce e dalle acque pure di freddo torrente.
Perché cercare di tradurre in immagini umane e in parole ciò che, essendo
immortale, non si può che sognare? Io vidi Diana nuda. Diana la terribile, la
grande, scherzava con le sue vergini sorelle blandita dall’onda, i biondi
capelli inanellati di mille perle liquide, che, fesse dal sole, irraggiavano
come corona di stelle dalla magnifica chioma della cacciatrice. Vidi la curva
del fianco ove solitamente appoggia l’arco nell’atto dell’incoccata, ammirai la
generosa mammella sinistra, sempre fasciata per dare agio al braccio di tendere
fino in fondo il dardo mortifero. Io la vidi. Le studiai la schiena, sinuosa e
snella, bianca di latte, e la coscia forte e veloce, dalla cui falcata non cane
né sparviero possono osare trarre vittoria nella corsa”.
“Ma
lei, Diana, non ti vide?”
“Come
non mi vide, Tiresia! Come può la cacciatrice non udire e non vedere in tutto
il bosco a lei sacro! Lei mi vide, da subito, e non solo. Lei mi volle. Mi tirò
a sé, come la tigre è attratta nella buia trappola nel terreno fangoso dal
cacciatore che ambisce ai suoi cuccioli. Fui preda, e dovetti ubbidire, e
guardai avidamente. Lei non mi dava le spalle, Tiresia, era di profilo, e da
subito mi avvidi che l’occhio vigile mi scrutava, sebbene la dea seguitasse a
scherzare con le sue serve e compagne. Mi scrutava, e sorrideva. Ahi, vecchio
cieco, i vivi scrivono e cantano della mia morte come se solo alla visione
illecita di nude carni la si debba imputare. Falso! La colpa non fu nella
visione della dea alla fonte, lei lo volle, siine certo. Colpa fu la mia
d’aver, impavido, sostenuto lo sguardo e il sorriso tremendo della Cacciatrice.
Mai vidi occhi più fieri e profondi, mai bocca più ferina e stupenda al tempo
stesso. È lei la più grande predatrice, e la sua bocca di dea si è certo
nutrita dei cuori di mille e mille vittime per apparire siffattamente cruenta
di amore e morte”.
“Dissimili
le nostre vicende Atteone, eppure così uguali! Certo di Afrodite peccai nel
guardare il bel corpo pallido bagnato dalla fonte sul Parnaso. Ma quella dea
non mi sorrise, anzi mi maledisse, e se non fosse stato per la antica alleanza
della madre mia con la bella Venere, credo non solo la vista m’avrebbe
sottratto la cipride. Ira disegnava il suo bel volto, non men bello sebbene
corrugato da linee di rabbia, per esser stata discoverta da un pastore. E,
posso dirtelo omai, non guatai certo il suo bel volto, ma fui rapito dalla
morbida curva delle natiche visibili di sotto il liquido cristallo, dal
generoso e morbido seno compresso dal braccio, a difesa dei dardi voluttuosi
dei miei occhi. No, non fu nulla di simile al tuo rapimento, sebbene…”
“Sebbene
sia cosa degna, morire o soffrire per la nudità divina”.
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