domenica 7 luglio 2013

I morti del Grappa



Ieri ho preso parte a un'escursione organizzata dall'associazione Pax Christi di Vicenza.
Ho condotto una sorta di guida storica al Monte Grappa, partendo da alcune pagine del mio "Sul Grappa dopo la vittoria".
L'itinerario che ho proposto è, a mio avviso, tra i più belli e affascinanti dell'intero massiccio: partenza da Finestron, arrivo sul Col della Berretta, e poi via, in saliscendi, attraverso il crinale dell'Asolone e fino in Cima Grappa.
E', questo, un percorso bello per più motivi. In primo luogo il panorama aperto, che spazia a 360 gradi dall'Altipiano di Asiago alla pianura veneta alle cime bellunesi. In secondo luogo i pascoli verdi e fioriti, su cui si cammina, in uno scenario davvero idillico. Infine, e soprattutto, la densità storica del percorso, che attraversa la linea del fronte italiano e austroungarico, in un dedalo ancora bene evidente di trincee, di buchi di granata, mentre, laggiù in fondo, come una sorta di inquietante Moby Dick cui si sta dando la caccia, la mole bianca del Sacrario si avvicina, acquisendo poco a poco precisione e dettaglio.
Ho percorso più volte questo itinerario, eppure, specie se, come ieri, il cielo è offuscato da nubi basse e scure, quando arrivo alla salita finale che conduce, in uno strappo abbastanza ripido, alla Cima, sono sempre pervaso da un senso di inquietudine profonda, pensando che i miei scarponi calpestano uno scenario di morte e distruzione così totale e profonda da continuare a segnare indelebilmente il paesaggio a distanza di ormai 100 anni.
A sinistra il budello contorto di una trincea che si interrompe improvvisamente nella voragine scavata da una bomba, a destra l'imboccatura di una galleria buia. Tra i sassi e la terra del sentiero, l'occhio attento intravede frammenti di ferro, una scheggia di granata, residui minimi, eppure presenti, di una strage che continua a riecheggiare nel silenzio della montagna.
Abbiamo fatto la prima tappa sul Col della Berretta. E' stata una cima aspramente contesa, scenario di battaglie che portarono a morte prematura migliaia di giovani italiani e austriaci. Un cippo ricorda, con una retorica un po' militarista, il sacrificio dei battaglioni di soldati siciliani che, nella battaglia d'arresto del novembre del 1917, riuscirono a fermare l'avanzata del nemico su quella linea di fuoco aspra e tremenda.
Sotto l'erba e i fiori dei pascoli del Col della Berretta, a pochi centimetri di profondità, la traccia del conflitto è ancora oggi fin troppo abbondante. Qualche anno fa hanno piazzato sulla cima un ripetitore (un bel pugno nell'occhio per chi ama le cime incontaminate!), e per farlo hanno dovuto scavare qualche metro cubo di terra, oltre che togliere un po' d'erba per qualche decina di metri per ricavare il sentiero di accesso all'area di lavoro per le ruspe. Ricordo come, per almeno due anni, finchè l'erba non si è ripresa la terra smossa, coprendo con il suo mantello quelle nuove ferite dell'uomo, bastasse camminare lungo i sassi e la terra per trovare bossoli, elmetti, gavette, baionette, proiettili, cucchiai. Come se la guerra fosse passata da pochi anni, non da un secolo.
Ma non basta.
Dopo le battaglie di trincea, era la norma che i morti e i feriti fossero raccolti, per essere, a seconda dei casi, inviati agli ospedali o ai cimiteri da campo.
Prima della costruzione dei grandi Ossari (Asiago, Cima Grappa, Bassano...), gli scenari di guerra erano punteggiati da cimiteri, piccoli e grandi, oggi scomparsi.
Quindi, a parte alcuni scenari particolarmente cruenti, come certe aree del Carso, il fronte italiano della Grande Guerra non avrebbe dovuto essere un fronte in cui i cadaveri si lasciavano a marcire tra una trincea e l'altra.
Eppure, se qualcuno salisse in questi giorni sul Col della Berretta, e andasse a osservare da vicino il Cippo della cima, vedrebbe che, a fianco dei normali pezzi di ferro raccolti nelle vicinanze, qualcuno ha deposto un mucchietto di ossa umane. Frammenti di femore, una porzione della calotta cranica, qualche osso di minori dimensioni. Cosa significa tutto ciò?
A distanza di cento anni, il Grappa continua a restituire i suoi morti.
Gli scenari di battaglia furono così aspri che, nonostante il recupero dei corpi fatto durante il conflitto dai reparti medici e di Croce Rossa e il recupero fatto dopo la fine della guerra, su tutte le cime rimasero corpi abbandonati, forse fatti a pezzi e frammischiati alla terra, e pertanto irrecuperabili.
Se basta camminare lungo un sentiero e grattare un po' di terra per trovare frammenti di ossa, mi domando quanti corpi ancora dormano sotti i verdi pascoli degli Asoloni... Ma forse il destino di quei soldati, poco importa se italiani o austriaci, che riposano tra i fiori di campo, è preferibile a quello dei commilitoni chiusi nella pietra, nel bronzo e nel ferro dei sacrari.

6 commenti:

  1. Stimato Paolo Malaguti
    Ho letto tanti racconti su la Grande Guerra peró queste poche righe mi hanno commosso. Sono di origine argentina se si puó dire che essere argentino sia una origine giacché Argentina é stato un crogiolo di etnie, specialmente italiani, specialmente veneti. I mie antenati erano spagnoli, aborigini e svizzeri e per continuare con la lotteria de questa vita mi sono sposato con una veneta. Ricordo mio suocero in Argentina con la sua instancabile dedizione alla famiglia, il lavoro, la chiesa ed il orto e leggendo il suo "Sillabario Veneto" mi é venuto l'idea di domandargli l'origine della parola "s-ciona" che egli usava per denominare la "rondella" italiana. La ringrazio se puo fare luce su questo piccolo particolare che fara piu nitida la immagine de una persona che ho amato.
    La saluto cortesemente
    Eduardo Roberto Lopez

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  2. Eduardo: credo che derivi da "schiavona", perchè io so che in veneto s'ciavona significa esattamente ANELLO o ORECCHINO.

    Forse, in origine, era un allusione al modo di vestire degli slavi.
    (S'ciavo, invece, significa "schiavo" (ma ha la stessa origine, nel significato di slavo), e da questa parola deriva il saluto italiano "ciao")

    Saluti!
    Luciano Comelli

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  3. CARSO



    Scavando il proprio campo,

    e non per caso,

    una mandibola scorse tra la terra

    con quattro denti,

    una tibia , una rotula, tre costole consunte

    un cranio con un buco nella fronte.

    “Nel prato mio?”

    sbottò indispettito.

    Ed affondò la zappa nella terra

    ed altre cose trovò:

    una boraccia, una gavetta

    delle posate consunte d’alluminio,

    una fibbia, una baionetta

    e un elmo forato e mezzo arrugginito.

    “E’ gente nostra – pensò –

    che morta è in guerra”.

    Ma tra le zolle v’era una medaglia,

    quasi consunta e sempre d’alluminio,

    come quella dei cani per l’appunto,

    con inciso un cognome non padano,

    un nome d’un terrone: Antonio Catalano.



    Salvatore Armando Santoro
    (Boccheggiano 11.1.2009 12,43)

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    1. Carissimo Salvatore, bellissima poesia, davvero! Tristemente ironica, lucida, composta... Complimenti!

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    2. Fa sempre piacere quando una propria composizione riesce a trasmettere e socializzare le proprie emozioni. Le mie poesie sono quasi tutte su www.poetare.it/santoro3.html, che a me serve anche come archivio personale in caso dovessi perdere le poesie nel mio archivio.
      Gestisco due Bandi Letterari ed un portale che si interessa di letteratura e che mi sto sforzando a far crescere anche se i risultati ancora non mi convincono (www.circoloculturaleluzi.net). Attraverso la newsletter e le news del portale riesco però a diffondere le iniziative dove il Circolo è presente. A fine mese effettueremo il 2° Incontro dei Poeti Salentini a Patù (Lecce), dove collaboro con la Proloco anche per la gestione di un Bando Letterario. Eventuali informazioni potranno essere richieste via email a santoro3000 (@) alice.it - Tel. 366.4748941

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  4. Se non ti dispiace utilizzero la tua foto con i frammenti di ossa umane a coreografia della mia poesia (citando logicamente l'autore ed il blog).

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